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Paradiso e inferno Copertina flessibile – 25 maggio 2015
Opzioni di acquisto e componenti aggiuntivi
- Lunghezza stampa240 pagine
- LinguaItaliano
- EditoreIperborea
- Data di pubblicazione25 maggio 2015
- Dimensioni10.3 x 2.3 x 20.8 cm
- ISBN-10887091190X
- ISBN-13978-8870911909
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Dettagli prodotto
- Editore : Iperborea (25 maggio 2015)
- Lingua : Italiano
- Copertina flessibile : 240 pagine
- ISBN-10 : 887091190X
- ISBN-13 : 978-8870911909
- Peso articolo : 222 g
- Dimensioni : 10.3 x 2.3 x 20.8 cm
- Posizione nella classifica Bestseller di Amazon: n. 9.827 in Libri (Visualizza i Top 100 nella categoria Libri)
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L’opera di cui voglio parlare è la cosiddetta “Trilogia del ragazzo”, ovvero Paradiso e Inferno, La tristezza degli angeli e Il cuore dell’uomo, tutti editi naturalmente da Iperborea e tradotti magistralmente da Silvia Cosimini, a cui va anche il merito di aver fatto conoscere questo autore qui da noi e di averne caldeggiato la pubblicazione.
In effetti la prosa di Stefánsson è quanto di più lontano si possa immaginare dall’estetica del mainstream, così come le tematiche che affronta; tuttavia, detto per inciso e per sano gusto di polemica, il favore di critica e di pubblico che ha ricevuto dimostra che, molto spesso, chi legge è meno sprovveduto di quanto pensino le programmazioni editoriali nostrane.
Ma di cosa parla la trilogia e perché l’autore è stato accostato nientemeno che a Verga?
Premesso che si tratta di romanzi corali in cui, ammetto, all’inizio si fa fatica a orientarsi tra i tanti nomi, tutti un po’ simili tra loro e per noi “esotici” anche a livello grafico, tutto ruota attorno al “ragazzo”, la cui educazione esistenziale, sentimentale e letteraria costituisce il focus centrale della narrazione. Ambientati verso la fine del secolo scorso in un’Islanda abitata da una natura estrema e spietata (ricordate l’Operetta di Leopardi?), circondata dal mare, “quel mare per cui viviamo, quel mare per cui moriamo”, i tre romanzi sono in primo luogo la descrizione della lotta per l’esistenza operata dalle comunità di pescatori, allevatori e mercanti che il caso ha disseminato tra fiordi, falesie e brughiere.
Questo elemento, e il costante rapporto di odio/amore con le forze naturali, è sicuramente il tratto comune con il Verga de I Malavoglia che per primo colpisce il lettore, così come l’impatto su queste comunità delle prime avvisaglie di una modernità rapace e perturbante. L’altra somiglianza riguarda le scelte stilistiche: come nel primo romanzo verghiano e in molti suoi racconti, la narrazione avviene infatti tramite una voce corale interna alla comunità della quale ha condiviso sofferenze e privazioni; voce corale i cui interventi espliciti costituiscono, a mio avviso, la nota più poetica, quasi sublime, dell’opera.
Interventi espliciti di una voce narrante plurale di cui sappiamo quel poco o quel tanto che ritiene di raccontarci, vale a dire che è legata ai luoghi, che ha vissuto vicende analoghe a quelle dei personaggi e il cui “più grande rimpianto è quello di non esistere più”. È la voce dei morti del villaggio, che non riescono a staccarsi dai vivi e dai loro tormenti e, al contempo, nulla possono fare per sottrarli al loro destino.
Al contrario del “coro di parlanti popolari” verghiano, però, questa che si fa carico di raccontare la storia del ragazzo e dei numerosi personaggi è una voce commossa, accorata e dolente e la luce che getta sulle vicende è riscaldata dalla compassione e dalla condivisione. A essa l’Autore affida la propria visione del mondo, distante anni luce dal pessimismo verghiano: la crudezza della natura umana, raccontata senza sconti né pudori in alcuni tratti dei romanzi, non è una condanna da cui non sia possibile riscattarsi attraverso l’impegno, la frequentazione della bellezza e della conoscenza e l’esercizio della solidarietà. Attraverso l’esercizio della parola, che sola può sconfiggere il nulla e l’oblio, le tenebre dentro e fuori di noi: “Non moriremo, diventeremo qualcos’altro. Forse semplicemente ci trasformiamo in musica”.
Ho amato soprattutto la prima parte, di questo romanzo, che altro non è che il primo di una trilogia.
Una narrazione spietata. Glaciale. Ma piena d’amore.
Su una barca, in mezzo all’oceano, un uomo muore congelato. Muore perché ha dimenticato di portare con sé la cerata che l’avrebbe protetto dalla tempesta.
Muore per una dimenticanza banale. Muore a causa di un libro, “Il paradiso perduto” di John Milton. Bárður, pescatore di merluzzi, si attarda, del tutto rapito dal testo che sta leggendo, cercando di memorizzarne alcuni versi. Il dramma diventa poesia. C’è una frase, "Nulla mi è delizia, tranne te", che lo ha sedotto e ammaliato, e la legge, la ripete tra se e sé, cullato al suono delle sue stesse parole. Poi, la dimenticanza. Poi ancora, la morte.
“Paradiso e Inferno” è un libro poetico. Gelido e raffinato.
Sarà un Ragazzo (niente nomi, semplicemente Ragazzo), un amico di Bárður, che si convincerà della assoluta necessità, lui che non ha potuto fare nulla, mentre l’amico moriva accanto a lui, sulla barca da pesca, di raggiungere il Villaggio e riconsegnare il libro al legittimo proprietario. Attraversando, da solo, spinto da questa impellente decisione, terre desolate e ghiacci ostili, tenebre impenetrabili, sferzate da venti polari. Rischiando di morire a sua volta.
L’amore per la letteratura lega fortissimo i due uomini, temprati da una vita di durezze, una continua lotta per la sopravvivenza, schiacciati da una Natura spesso ostile e soverchiante. Condividono l’amore per la poesia, che risuona come musica in orecchie in cui di solito echeggia il fragore del mare.
Il libro, fulcro del destino dei personaggi, diverrà un'ancora di salvezza per il Ragazzo, orfano e ormai senza neppure più la figura dell’amico accanto. E a suo volta, “Paradiso e Inferno” è il romanzo di formazione del Ragazzo, splendidamente tradotto da Silvia Cosimini.
“Le parole possono avere il potere dei troll e possono abbattere gli dei, possono salvare la vita e annientarla. Le Parole sono frecce, proiettili , uccelli leggendari all’inseguimento degli dei, le parole sono pesci preistorici che scoprono un segreto terrificante nel profondo degli abissi, sono reti sufficientemente grandi per catturare il mondo e abbracciare i cieli, ma a volte le parole non sono niente, sono stracci usati dove il freddo penetra, sono fortezze in disuso che la morte e la sventura varcano con facilità”