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Oldboy

ha scritto una recensione su Disaster Report

Cover Disaster Report per PS2

Ideato nel 2002 dalla software house giapponese Irem, Disaster Report (titolo adoperato nello specifico per la distribuzione americana, altrimenti più noto in Europa come SOS: The Final Escape) è un'avventura grafica che mescola svariate meccaniche che vanno dal puzzle game al survival. Soprattutto, si tratta di un gioco che fa leva su un concept all'epoca ed anche oggi decisamente poco battuto nel panorama videoludico.
DR è infatti un titolo che prende forte ispirazione dai disaster movie hollywoodiani e mette sostanzialmente il giocatore nei panni di un giovane reporter appena giunto su di un'isola artificiale per un nuovo lavoro. Il protagonista dovrà però fare i conti, così come tutti gli abitanti dell'isola, con una serie di terremoti che stanno devastando il territorio e riducendo ogni singolo edificio ad un cumulo di macerie.
Il plot è fondamentalmente un pretesto per mettere il giocatore in tutte quelle tipiche situazioni strettamente legate al filone dei disaster movie. Che sia correre dalle scale prima che crolli un edificio, spostarsi sul cornicione di un palazzo mentre fischia il vento o tenersi in equilibrio su delle travi sospese nel vuoto.
A livello di gameplay, DR cerca di proporre un certo realismo nelle sue meccaniche per aumentare l'immedesimazione del giocatore con il contesto presentatogli. L'esplorazione delle aree di gioco è piuttosto libera, e bisognerà cercare oggetti o nuovi percorsi per proseguire nell'avventura. E' naturalmente presente il game over, che può avvenire sia beccando quelle situazioni che possono portare alla morte istantanea del pg che in maniera più graduale. Occorrerà infatti stare attenti ad una barra della salute e soprattutto ad una della stamina. Colpi, urti e cadute troppo pesanti possono facilmente ferire il protagonista. Allo stesso tempo correre, arrampicarsi, nuotare e attività simili possono far calare la sopracitata barra della stamina. Oltre ad avere il personaggio rallentato, una volta che la stamina sarà scesa a zero inizierà a scendere anche la barra della salute. Medikit, bende e oggetti di primo soccorso in generale permetteranno di dare una sistemata al nostro pg, che potrà anche sfruttare alcuni elementi d'outfit particolari (ad esempio caschi, guanti e giubbotti antiproiettili) per limitare i danni. Dissetarsi ad una fontana o ad una fonte d'acqua naturale permetterà invece di ripristinare la stamina e/o salvare la partita.
La longevità generale di DR si attesta attorno alle 5 ore, ma la possibilità di compiere alcune scelte alternative durante l'avventura, in grado di far approfondire le storie degli altri personaggi, e la presenza di finali multipli permetteranno di rimanere sul titolo per più di questo tempo. A ciò si aggiungono inoltre i collezionabili, come le foto e le stravaganti bussole da raccogliere durante l'avventura.
Parlando di difetti, DR ha il suo tallone d'achille principalmente nei controlli e nella gestione della telecamera, entrambi elementi non sempre precisissimi. Anche la componente survival avrebbe meritato maggiore cura, a causa di un'eccessiva abbondanza di risorse che rendono impossibile il game over per l'esaurimento graduale della stamina o della salute, e che quindi rendono il titolo un po' troppo semplice. Almeno fino alla difficoltà standard.
In conclusione, DR è un titolo piuttosto particolare ed interessante, soprattutto per la forza del suo concept. Potrebbe non essere apprezzato da tutti per alcuni aspetti, compreso un ritmo di gioco non sempre frenetico e coinvolgente. Per coloro che invece riusciranno a cogliere le buone proposte di Irem, potrebbe rivelarsi una piacevole esperienza. Sicuramente difficile da replicare in altre opere di stampo videoludico odierne o del passato.

Oldboy

ha scritto una recensione su Drakengard 3

Cover Drakengard 3 per PS3

Il fiore e il dragone

Dopo due capitoli di epoca PS2 sotto la gestione di Cavia, nel 2013 la serie di Drakengard fa il suo approdo sulla generazione successiva di console con il suo terzo e fino ad oggi ultimo capitolo.
Il brand storicamente pubblicizzato negli anni da Square Enix debutta così per la prima volta su PS3, forte di due sostanziali novità. La prima è rappresentata dalla comparsa di Access Games, il nuovo team coinvolto in prima linea nello sviluppo del gioco. La seconda è il ritorno di Yoko Taro in cabina di regia, dopo la mancata presenza del sopracitato tra le fila dello staff di Drakengard 2.
La commistione di questi due elementi, nel bene e nel male, saranno gli artefici dell’identità di questo terzo capitolo di Drakengard. Guardando indietro nel tempo, si può notare come la serie abbia sempre sofferto tremendamente di due cose in particolare: un gameplay mai realmente convincente (e soprattutto coinvolgente) e l’impossibilità di rinunciare alle capacità di scrittura del suo autore principale, come testimonia la sceneggiatura con pochissimo mordente di Drakengard 2.
Per Drakengard 3 (da ora in poi D3 per semplificare), dicevamo, questa volta scende in campo Access Games al posto di Cavia. Uno studio che mette in tavola decisamente più guizzi ed idee del suo predecessore. In D3 rimane presente la classica struttura di gameplay in due fasi tipica della serie, ovvero sezioni a terra che mescolano un po’ di action rpg e un po’ di musou, e sezioni in sella al drago di turno, che a loro volta si alternano tra battaglie su binari e scontri più “liberi” con boss e armate.
Access Games porta stavolta in dote un gioco privo della legnosità generale dei predecessori e fortunatamente non in grado di “rompersi” attraverso cose come lo spam ripetuto dei colpi, attacchi specifici di personaggi o combo particolari. Il senso d’azione generale che si prova giocando a D3 è sorprendentemente fluido, supportato da tante piccole migliorie che rendono forse per la prima volta piacevole usare il pad con un titolo della serie. Finalmente viene integrato un sistema di lock-on per il puntamento dei nemici. Le magie sono state rimpiazzate da una modalità chiamata Intoner mode, in grado di rendere invulnerabile e più potente la protagonista Zero per il tempo di consumo di un indicatore apposito. Le schivate e parate sono ben integrate nel gameplay e non sembrano semplici funzioni opzionali estranee al resto. Le armi sono un’infinità (e questo per la serie non è una cosa nuova), ma soprattutto permettono di alternare ben 4 stili di combattimento diversi tra loro ed intercambiabili liberamente in battaglia, grazie ad un piccolo menu rapido richiamabile in-game. Il passaggio da un’arma all’altra è così immediato rispetto ai precedenti capitoli che le combo di gioco ne guadagnano non solo in efficacia, ma persino in eleganza d’esecuzione. In tutto ciò anche le parti in sella al dragone vantano una cura maggiore ed una buona alternanza con quelle a terra, nonostante forse qualche piccolissima incertezza sui controlli.
D3 rende quindi finalmente giustizia alla serie dal punto di vista del giocato? Purtroppo, nonostante questo sia indubbiamente il miglior titolo del terzetto sotto questo aspetto, anche stavolta ci sono delle perplessità più o meno importanti. Tralasciando questioni specifiche come il level design generale, spesso scialbo, il lock-on sopracitato non sempre preciso, la telecamera non sempre perfetta in alcuni punti ed una certa ripetitività delle varie situazioni di gioco (ammazza, ammazza, ammazza), il vero grosso problema di D3 è legato al suo incostante e fragilissimo framerate. Bastano infatti pochi nemici a schermo per far crollare gli fps a numeri ridicoli e veder vanificare in un colpo solo tutto il buon lavoro fatto da Access Games. Giocare purtroppo un titolo di questo tipo in condizioni del genere va inevitabilmente ad incidere in maniera negativa sull’esperienza, ed è francamente un peccato.
Preciso che personalmente non ho percepito affatto questo problema perché ho giocato il titolo per vie “trasverse” e, attraverso l’uso di apposite patch correttive, fortunatamente diventa possibile aggirare tale ostacolo. Tuttavia, non sarebbe naturalmente corretto ignorare la questione solo per via di questa possibilità.
Dal “lato Yoko Taro” cosa dice invece D3? Come già successo con il primo capitolo, la mente stravagante e fantasiosa del game designer nipponico si conferma la punta di diamante dell’intero pacchetto.
A livello narrativo D3 parte subito a razzo. Il titolo si pone come un prequel del primo Drakengard del 2003 ed alterna momenti cupi e malinconici ad altri più ironici e leggeri. Il gioco intriga presentando una protagonista dalla natura misteriosa, Zero, che persegue una missione dai contorni non sempre chiarissimi. In compagnia del suo alleato dragone, Zero combatte infatti per un’unica ragione di vita: uccidere le sue cinque sorelle.
Il plot di D3 è veramente solo questo, ma è il modo in cui la storia si evolve gradualmente a coinvolgere appieno il giocatore, complice i numerosi colpi di scena sparsi per l’avventura e l’ottima caratterizzazione del cast. Zero e Mikhail risulteranno essere personaggi molto più sfaccettati ed interessanti di quello che potranno sembrare all’inizio, così come i villain ed i personaggi secondari.
Come da tradizione per la serie, il gioco propone vari finali alternativi per il destino di Zero e del suo dragone Mikhail, sbloccabili sostanzialmente in base al tempo che il giocatore deciderà di impiegare sul titolo. Ed esattamente come nel primo Drakengard, il “vero finale” sarà disponibile solo portando a termine gli altri e riuscendo a raccogliere tutte le armi di gioco.
̶E̶ ̶s̶c̶o̶n̶f̶i̶g̶g̶e̶n̶d̶o̶ ̶u̶n̶o̶ ̶d̶e̶i̶ ̶b̶o̶s̶s̶ ̶f̶i̶n̶a̶l̶i̶ ̶p̶i̶ù̶ ̶p̶u̶n̶i̶t̶i̶v̶i̶ ̶d̶i̶ ̶s̶e̶m̶p̶r̶e̶.̶
Dal punto di vista grafico, il titolo invece non brilla particolarmente. Le texture di gioco non sono di certo tra gli elementi più memorabili e, per quanto ci sia una certa varietà negli ambienti proposti, il risultato finale non convincerà mai il giocatore. Discorso diverso invece per i modelli dei personaggi, decisamente apprezzabili e pieni di fascino grazie anche all’operato del solito Kimihiko Fujisaka, già character designer dei precedenti titoli.
Pollice in su enorme per le musiche. Solitamente sempre positive nei vari capitoli della serie, questa volta l’OST spicca ancora di più grazie alla gradita presenza di Keiichi Okabe, già autore delle musiche di NieR e oggi apprezzato all’unanimità per il suo lavoro su NieR: Automata.
In conclusione, D3 è un titolo che "conclude" l’altalenante trilogia dark fantasy fatta di magie, fini del mondo e dragoni nel migliore dei modi, almeno per quanto riguarda la parte narrativa. La spinosa realizzazione tecnica macchia purtroppo le buone proposte di gameplay e le innovazioni introdotte con Access Games, rendendo di fatto impossibile uscire dall’esperienza totalmente soddisfatti. A meno che non si decida di optare per le vie alternative.

Oldboy

ha scritto una recensione su Drakengard 2

Cover Drakengard 2 per PS2

“Love me. I want you to love me.”

Quelle richiamate nel titolo sono le parole pronunciate da un noto personaggio durante il filmato d’apertura di Drakengard 2 e, per quanto appartengano ad un contesto totalmente diverso, si prestano perfettamente ad un metaforico appello del gioco al giocatore.
Il titolo di Cavia del 2005, sequel diretto del primo capitolo uscito due anni prima, è un action rpg che in superfice cerca di mostrare miglioramenti rispetto al passato, a farsi amare dal giocatore appunto.
Il problema, semplicemente, è che non ci riesce mai davvero fino in fondo.
Drakengard del 2003 era sicuramente un titolo dalla natura complicata, ma aveva perlomeno l'attenuante di essere il primo della serie. Da un sequel ci si aspetterebbe quindi uno step ulteriore, un passo in più, anche piccolo, dettato dall’esperienza maturata con il lavoro precedente. Drakengard 2 sembra paradossalmente mettersi, con un impegno quasi sadico e autolesionista, nella condizione di fare quel piccolo passo all’indietro.
Il gioco a prima vista presenta indubbiamente alcune aggiunte ed una maggiore attenzione al gameplay rispetto al suo predecessore. Abbiamo ad esempio una telecamera leggermente migliorata (ma tutt’altro che stabile, va precisato), una scelta multipla tra i membri giocabili del party, non più ridotti a semplici evocazioni sporadiche. Vi è anche una maggiore profondità del sistema di attacchi e magie ed una valorizzazione di alcuni aspetti come la parata, che nel primo capitolo era pressoché inutile da usare.
Queste migliorie sono però vanificate da altre componenti del gioco che sono rimaste invariate dal primo capitolo o che sono addirittura peggiorate. La fastidiosa legnosità di fondo dei movimenti e degli attacchi di protagonisti e nemici, che martoriava già il primo Drakengard, qui persiste senza ostacoli. L’AI dei nemici è parecchio discutibile, ed in certi frangenti regala anche momenti tristemente comici. I comandi non rispondono sempre a dovere, causando la perdita casuale di una catena (le classiche combo di gioco) a prescindere dalla giusta pressione dei tasti. Un problema non da poco, visto che alimenta sensibilmente un grosso senso di frustrazione durante tutta l'avventura.
La ripetitività delle missioni, tallone d’achille già del primo Drakengard, qui è portata spesso e volentieri all’esasperazione. La longevità di Drakengard 2 è maggiore rispetto al primo titolo e non di poco, ma non rappresenta affatto un punto a favore. Questo perchè le missioni di gioco sono annacquate, inutilmente chiuse in degli schemi che hanno lo scopo di renderle il più lunghe possibili. Immaginate cose come fare spostamenti da punto A a punto B della mappa + ritorno + eliminazione di un gruppo di nemici in 3 o 4 fasi + spostamento a punto C e capirete cosa intendo.
A tutto questo va aggiunta inoltre una scelta piuttosto strana da parte di Cavia, ovvero la gestione delle missioni in sella al drago. Se nel primo Drakengard queste erano tutto sommato ben alternate con quelle a terra e rappresentavano forse le fasi più divertenti in termini di gameplay, in Drakengard 2 la sensazione principale è che il loro numero sia stato drasticamente ridotto in favore degli scontri a terra.
Altro punto abbastanza spinoso e motivo per cui purtroppo non ho trovato quella stessa voglia di sbloccare tutti i finali che il primo Drakengard, nonostante i suoi mille difetti, era riuscito a darmi: la sceneggiatura. L’assenza di Yoko Taro alla scrittura purtroppo si sente tutta. La storia di Drakengard 2 non riesce ad eguagliare la complessità e la profondità del capostipite, ed in alcuni punti presta anche il fianco ad alcune forzature (ad esempio, personaggi che potrebbero sbrogliare una situazione semplicemente aprendo bocca ma decidono, senza motivo, di non parlare). A parte qualche colpo di scena ben piazzato e dei momenti sinceramente toccanti soprattutto per i giocatori del primo capitolo, la storia non riuscirà mai ad essere realmente incisiva. Così come non riusciranno mai ad esserlo i personaggi, decisamente molto meno caratterizzati (e molto meno imperscrutabili, ambigui e carismatici rispetto a quelli di Drakengard). Un peccato perché i character design di Kimihiko Fujisaka e Taro Hasegawa avevano comunque il loro discreto potenziale.
Un pregio che merita sicuramente una menzione è l'epica colonna sonora curata da Ryoki Matsumoto e Aoi Yoshiki. Componimenti che non fanno rimpiangere le musiche di Nobuyoshi Sano e Takayuki Aihara, ovvero gli autori dell'OST del primo capitolo.
In conclusione, Drakengard 2 è un titolo che a conti fatti si rivela più un'occasione mancata che altro. Qualche novità interessante non basta a Cavia per rendere più efficace la sua formula, soprattutto se i problemi tecnici della serie rimangono preponderanti. Laddove il primo capitolo sopperiva alle sue magagne grazie perlomeno alla componente narrativa molto forte, qui la storia semplicemente non ha le spalle abbastanza larghe per reggere da sola l'intera baracca.
"Love me". Ma devi anche farti voler bene.

Oldboy

ha scritto una recensione su GRIS

Cover GRIS per PC

Non senza dolore

Durante una festa tenutasi a Barcellona in un periodo non noto antecedente al 2016, si incrociarono insospettabilmente le vite di tre persone che stavano partecipando al suddetto evento: Adriàn Cuevas, Roger Mendoza e Conrad Roset. Cuevas e Mendoza, amici di lunga data, avevano all'epoca entrambi un curriculum come programmatori per Ubisoft, ma coltivavano già da un po’ di tempo l’idea di mettersi in proprio e sviluppare in maniera indipendente. Ad entrambi mancavano però le idee per dare forma al loro progetto dal punto di vista artistico.
Roset era invece un illustratore che aveva tenuto delle mostre in numerose gallerie internazionali, ma covava dentro di sé la voglia di cimentarsi in una sfida particolare. Il suo desiderio era infatti lavorare, tramite la sua arte naturalmente, ad un videogame.
L’incontro fortuito del terzetto sembrava quindi una di quelle cose scritte nel destino. Da questo evento nacque così la software house spagnola Nomada Studio e nel 2018 venne dato alla luce il suo titolo di debutto: GRIS, letteralmente “grigio” dallo spagnolo, ma anche dal duplice significato di "triste" e "spento".
Il titolo è più che mai indicativo. Non solo perché rappresenta il nome della protagonista, ma perchè proprio i colori e le emozioni sono i perni centrali del gioco, così come la loro accezione negativa.
Dal punto di vista prettamente ludico va precisato che GRIS è un platform di breve longevità e senza presenza di game over, basato sulla risoluzione di semplici enigmi ambientali e sulla possibilità di ottenere nuove abilità per la protagonista progredendo nell’avventura.
Detto così non sembra trattarsi di nulla di eclatante, ed effettivamente la parte interattiva è davvero tutto qua. L'idea di dare alla luce un titolo impegnativo e stratificato sponda gameplay non fa parte però dello scopo prefissatosi dai Nomada Studio in fase di progettazione, che anzi hanno cercato appositamente di rendere il loro titolo fruibile anche per chi non ha mai avuto dimestichezza con il medium videoludico.
Nella loro opera, Cuevaz e Mendoza hanno cercato di raccontare quel turbine di emozioni negative che normalmente colpiscono una persona di fronte ad un evento doloroso. A detta di Cuevaz, durante il processo di sviluppo il team si è anche avvalso della consulenza di uno psicologo, proprio per riuscire a tirar fuori il meglio dal loro racconto.
Stando agli eventi mostrati e ad alcuni indizi lasciati lungo la strada, potremmo dire che GRIS è un titolo che nel concreto snocciola a modo suo il processo di elaborazione del lutto. Tuttavia, personalmente penso che la metafora e la simbologia del gioco di Nomada Studio, così libere e aperte alla sensibilità del giocatore, si possano prestare tranquillamente a tutte quelle situazioni emotivamente pesanti e spiacevoli della vita.
Pur non essendo mai esplicito, violento o scioccante nella sua narrazione, visivamente il titolo mantiene sempre un impatto molto forte. Vi sono corpi sgretolati da ricostruire raccogliendo luci, mondi in bianco e nero che bisogna sforzarsi di far tornare a colori, capacità elementari come saltare e nuotare da riottenere. Il gioco parte da sottrazioni, dal togliere innanzitutto il tappeto dai piedi della protagonista. E non potrebbe fare diversamente, visto che chi si trova in situazioni angoscianti sente innanzitutto il mondo intorno a sé andare in pezzi.
In un titolo così tematicamente ambizioso, il lavoro di Roset si rivela a conti fatti più centrale che mai. L'art direction si impone da subito come il fiore all’occhiello della produzione. Le capacità dell'artista spagnolo regalano continue meraviglie per gli occhi e, grazie alle varie colorazioni e sfumature degli ambienti di gioco, si avrà più volte la sensazione di trovarsi di fronte a degli splendidi dipinti ad acquerello. Svolge poi un supporto prezioso alle immagini la struggente colonna sonora del gruppo spagnolo Berlinist.
In conclusione, GRIS non è un titolo che vuole farsi ricordare per il gameplay e nemmeno tanto per le tematiche che affronta. Il lavoro di Nomada Studio rappresenta più un esperimento terapeutico di suoni e immagini, un tentativo di far scavare al giocatore dentro di sé e forse di farlo sentire un po’ meno solo in certi momenti.
Come a voler dire: la vita sarà anche grigia, ma prima o poi tornano i colori.

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