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Darkest Dungeon - recensione

Reynauld aveva cominciato bene la sua avventura. Il poderoso crociato aveva rischiato di soccombere per una serie di colpi fortunati di alcuni briganti già nel tutorial, ma per fortuna si era ripreso crescendo tra alti e bassi, guidando con successo varie spedizioni nelle rovine circostanti il maniero da me ereditato nell'introduzione del gioco.



Tra una peste nera prontamente curata, un pizzico di cleptomania che lo ha portato a intascarsi un po' di loot qua e là, una strana mania per le arti oscure contratta chissà come ma prontamente eliminata (cinghie e reclusione sembrano fare miracoli), la punta di diamante del mio roster aveva abbattuto anche qualche boss e creatura oscura particolarmente potente scaturita all'improvviso durante la normale esplorazione. Andava tutto alla grande, quindi. Poi è morto, nell'ennesimo dungeon. Come, direte voi? Trafitto dal pugnale affilato di un brigante? Dilaniato da qualche magia ancestrale? No, per un attacco di cuore.



Ora, le righe precedenti vi sembreranno quantomeno bislacche, ma chi ha già provato Darkest Dungeon avrà probabilmente accennato un mezzo sorriso, riconoscendovi l'imprevedibilità che attende i giocatori nel dungeon crawler di Red Hook Studios. Ma, prima di occuparci delle particolarità, torniamo alle basi più comuni del gioco, che sotto la sua attraente veste grafica nasconde una combinazione di gestionale e, appunto, dungeon crawler, con una spolverata di "roguelite", come viene definita la variante meno punitiva del genere.

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28 gennaio 2016 alle 11:00