Psycho-Pass: Mandatory Happiness - recensione
Non ci sarà Harrison Ford, perdutamente innamorato di una splendida e affascinante replicante; non ci sarà un terzetto di gemelli che riescono, chissà come, a prevedere il futuro, ma Psycho-Pass deve moltissimo a Blade Runner e a Minorty Report.
Nel XXII secolo immaginato da Gen Urobuchi, scrittore e sceneggiatore di visual novel e anime come Fate/Zero e Black Lagoon, all'uomo è rimasto ben poco libero arbitrio, costretto ad obbedire pedissequamente agli ordini, alle direttive compilate e trasmesse da un gigantesco computer, il Sybil System, capace di valutare qualità e attributi di ogni individuo della società, indirizzandolo, o meglio costringendolo, verso il percorso di vita più idoneo alle sue capacità. Istituto d'istruzione, lavoro, persino il compagno o la compagna con cui condividere la propria vita, tutto è freddamente scelto aprioristicamente dagli impassibili ed efficientissimi circuiti del sistema.
Non è tutto. Il super computer ha anche il compito di tracciare e scannerizzare lo Psycho-Pass di ogni cittadino, somma di due distinti parametri. Da una parte abbiamo l'Hue, un coefficiente che segnala il livello di stress e felicità del soggetto. Quando certi valori si abbassano o si alzano eccessivamente, si interviene con sedute terapeutiche o con la somministrazione di farmaci.
