Farming Simulator 17 - recensione
Farming Simulator è l'equivalente, in salsa videoludica, di un giardino Zen, dell'ora di yoga, di una seduta dallo psicologo. Non conterrà tutte le risposte come Il Libro dei Mutamenti, non è foriero d'incredibili rivelazioni come un biscotto della fortuna, non ha lo stesso spessore culturale di un qualsiasi romanzo di formazione, ma è innegabile che tra le righe di codice che compongono la struttura di ogni suo capitolo si annidi uno dei tanti segreti della vita, l'intima essenza di un'ovvia e imprescindibile verità: l'uomo ha bisogno del contatto con la natura, di rinnovare l'ancestrale rapporto che lo lega all'agricoltura, prima fra tutte le arti e i mestieri la cui padronanza ci ha permesso d'innalzarci definitivamente a specie dominante del pianeta.
C'è dell'altro, qualcosa già rivelato, anni fa, da Totò Cutugno, quando pateticamente (con pathos, s'intende), cantava il suo desiderio di andare a vivere in campagna, staccando dai ritmi schizofrenici e sovrumani della città, simbolo di un sistema economico e di un'artificialità imperanti e oppressivi. Farming Simulator sancisce, paradossalmente nel virtuale, questa esigenza. Rende tangibile, in ambito videoludico, il bisogno quasi ossessivo di rifugiarsi in un'oasi di pace, regolata da meccaniche che non prevedono lo sterminio indiscriminato, né il completamento di certi obiettivi in un ristretto lasso di tempo.
Va da sé che stiamo parlando di una saga molto particolare, adatta a pochissimi palati, praticamente indigesta e ingiudicabile dalla stragrande maggioranza dell'audience. Del resto parliamo di una versione ancora più statica e realistica di Harvest Moon, una sorta di The Sims in cui non è possibile scegliere partner, professione, come abbellire la propria casa. In Farming Simulator 17, esattamente come nelle passate iterazioni, senza alcun preambolo, né prologo narrativo, verrete abbandonati a voi stessi nel mezzo di un gigantesco appezzamento di terra: unica risorsa solo eventualmente capace di generare ricchezza.
