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Seven: The Days Long Gone - recensione

CD Projekt RED. Tre parole che nell'attuale panorama videoludico nascondono diverse chiavi di lettura possibili. Il pensiero va subito a The Witcher e a Cyberpunk 2077, alle opere di un team relativamente giovane che è passato dal distribuire giochi altrui nella propria nazione a essere un pilastro di quella stessa nazione insieme a team come Techland, The Astronauts e People Can Fly. Non si può non pensare all'incredibile rapporto che la software house ha instaurato con il pubblico, divenendo in breve tempo simbolo di trasparenza in un'industria che gli utenti guardano sempre più con distacco e diffidenza.



Questo team si è trasformato per molti appassionati nell'eccezione che dimostra come realizzare AAA single-player sia assolutamente possibile anche senza proverbiali patti con il diavolo, senza pratiche economiche discutibili e predatorie ma anzi andando anche a riesumare il vecchio e caro concetto di vera espansione. Ma come abbiamo già sottolineato CD Projekt RED ha significato e significa molto per tutta la Polonia, anche perché ha formato non pochi professionisti del settore.



Proprio alcuni di questi professionisti hanno deciso di seguire la strada indie e di appoggiarsi al sostegno di IMGN.Pro (Kholat) per dare vita a un'opera che sin dall'annuncio ha inevitabilmente attirato l'attenzione. Fool's Theory ha presentato Seven: The Days Long Gone come un RPG isometrico e post-apocalittico che si ispira a Thief. Rimanere di stucco di fronte a quella che sembra un'accozzaglia di generi e influenze senza né capo né coda è più che legittimo ma in realtà Seven è ancora più complesso di quel che ci si aspetta, dato che all'equazione decide di aggiungere anche il parkour. Il classico progetto troppo ambizioso per il proprio stesso bene? Scopriamolo insieme.

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19 gennaio 2018 alle 11:10