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Little Red Lie – Recensione

Sempre più spesso il medium videoludico viene utilizzato per veicolare forme di intrattenimento che si allontanano dal concetto di videogioco classico. Ne sono un esempio i titoli a interattività ridotta, come i giochi Telltale o i vari walking simulator, ma anche altre proposte nelle quali la presenza di enigmi o sezioni platform non è che un pretesto per narrare storie dalle tematiche profonde, come può avvenire in Bound o in RiME.



E' fondamentale avere ben chiara questa premessa e accettare l'esistenza di questa nicchia di videogiochi – che amplia la complessità e le sfaccettature del mondo videoludico, avvicinandolo sempre più a una moderna, incompresa forma d'arte – prima di approcciarsi a Little Red Lie. Difficile inserirlo all'interno di un genere definito, anche se il più indicato sembrerebbe quello di una sorta di visual novel nella quale riusciamo, di tanto in tanto, a far muovere i personaggi a schermo e a interagire con gli ambienti. Affermare che sia un gioco per tutti, anzi che sia un gioco punto e basta, sarebbe però una bugia. Una piccola, rossa bugia.



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Bugie, bugie, bugie



Dopo una breve premessa, che ha il sapore di un monologo della prima protagonista Sarah Stone, passiamo senza tanti fronzoli all'azione. Quel che possiamo fare con la nostra pixellosa protagonista è muoverci e interagire con alcuni elementi presenti intorno a noi: un'auto, alcuni distributori automatici, un bagno pubblico. L'interazione, nello specifico, consiste quasi sempre in brevi riflessioni nelle quali il personaggio di turno mente a sé stesso o agli altri.



Il significato del titolo – e, come vedremo, la morale dell'intero gioco – si esplica tutto qui. Avvicinandoci a un quadro comparirà un'opzione del tipo “menti sul tuo amore per l'arte”, esaminando una foto quella “menti sulla nostalgia del passato”, interagendo con una bottiglia d'acqua “menti sulla tua sete”, e così via. I protagonisti spenderanno qualche parola a proposito, tutto sotto forma di testo scritto, nel quale il colore rosso identificherà la menzogna. Talvolta sarà una bugia da poco, talvolta una più seria, ma il succo non cambia: mentiremo su tutto e a tutti, compresi noi stessi.





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Sarah e Arthur, così diversi, così uguali



Le vicende di Sarah Stone si alternano a quelle di un altro personaggio, Arthur Fox. Lei è una giovane che ha appena perso il lavoro e che torna a casa dei genitori per i conseguenti problemi economici, ma non trova il coraggio di raccontare la verità. La situazione familiare è pessima, con una sorella che vive nello scantinato di casa, che ha tentato il suicidio e che è malata di acquisti e tecnologia nonostante gravi sulle spalle dei genitori; con una madre malata e perennemente triste per la condizione della figlia, a cui si aggiungono i sospetti sui problemi lavorativi dell'altra; con un padre che tenta di mantenere il controllo e che poi si ammalerà a sua volta.



Arthur, al contrario, è un uomo fatto e finito. Motivatore, o mental coach come si dice adesso, che tiene conferenze e scrive libri, ricco e cinico, misogino e razzista, amante del lusso, senza freni inibitori né paletti etici, dedito alla cocaina, all'alcol, portato dal suo ego smisurato e dalla sua mancanza di scrupoli a non disdegnare neanche la violenza fisica.



Due facce diverse di una storia unica, condivisibile da tutti; quella di una vita dove, in un modo o nell'altro, per andare avanti dobbiamo mentire. Sarah lo fa con sé stessa, quando nega di aver bisogno di aiuto; lo fa con i genitori, nascondendo il suo licenziamento e le difficoltà economiche; lo fa con la sorella, cercando di ridimensionare la gravità dei suoi problemi. Arthur mente alle persone che dovrebbe motivare, ritenendole in realtà degli irrecuperabili falliti; e mente in parte anche a sé stesso, considerandosi soddisfatto e felice di una vita che in realtà, a conti fatti, a un livello profondo, sembra peggiore di quelle dei suoi cosiddetti falliti.



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6 aprile 2018 alle 16:10

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