Atelier Lydie & Suelle: The Alchemists and the Mysterious Paintings - recensione
Quando pensiamo alla parola atelier ci viene subito in mente il laboratorio di un artigiano, nello specifico di un pittore, una bottega piena di cavalletti, tele, colori e della strumentazione tipica di ogni artista che si rispetti. In particolare nell'Ottocento l'immaginario dell'atelier si è contrapposto alla pittura en plain air, ovvero quella all'aperto, tipica degli impressionisti, diventando sinonimo di un'intera filosofia artistica. Col tempo il termine ha assunto diversi significati ed è stato utilizzato anche per riferirsi agli studi di fotografi e stilisti.
La software house giapponese Gust, madre della saga Atelier, ha sempre utilizzato il termine per intendere, sì, un laboratorio, ma nello specifico quello di un alchimista, abbandonando parzialmente il significato originario della parola nella realizzazione dei suoi giochi. Dal 1997 si sono alternati ben diciotto titoli nella succitata saga (senza contare gli spin-off per console portatili), una serie di giochi di ruolo alla giapponese dove l'alchimia è il perno centrale delle vicende narrate e dove l'atelier si è imposto come luogo magico nel quale è praticata la sacra arte alchemica. Atelier Lydie & Suelle: The Alchemists and the Mysterious Paintings è il diciannovesimo titolo della saga principale, un gioco che sembra voler riconciliare semanticamente il concetto originario di atelier con il significato che Gust gli ha attribuito in questi ultimi vent'anni.
Lydie e Suelle Marlen sono due gemelle che gestiscono il piccolo atelier di famiglia, con il sogno di farlo diventare il più grande di tutto il regno di Adalet. Per realizzarlo hanno bisogno di un maestro, una mano che li guidi nell'apprendimento dell'arte alchemica. Nella città di Merveille, dove vivono con loro padre, fanno così la conoscenza di Ilmeria, che le guiderà nell'acquisizione di tutte le tecniche necessarie per padroneggiare al meglio le potenzialità del calderone alchemico.
