Necrobarista - recensione
Nell'ambito delle visual novel, si può dire che i coffee shop facciano genere a parte. Diventano zone liminali, ai confini della realtà, punto di incontro tra personaggi atipici. In un ambiente rilassante come quello di un bar, le storie si srotolano e diventano un odore inebriante che sfuma nell'aria: una volta concluse, al giocatore-lettore che le ha vissute resta addosso l'aroma di un espresso digitale. Necrobarista, dello studio australiano Route 59, tenta quest'approccio "chill" e ci porta al Capolinea (The Terminal in originale), luogo di bevute per gli spiriti in procinto di passare all'aldilà.
Tutto nasce da quel seme chiamato Project Ven, gioco sperimentale con il quale il team di Route 59 ha vinto un premio (Best Narrative) al Freeplay 2015. Già allora gli sviluppatori puntavano a ragionare sul format del "romanzo visivo". Necrobarista, infatti, è unico: presenta un'animazione tridimensionale in cui è il via (click) del giocatore a garantire lo scorrere del tempo. Il parlato è sostituito da testi scritti. Gli unici suoni sono dati dall'ambiente e dalla colonna sonora. Alle visual novel (anche quelle con contaminazioni 3D), mancava infatti un balzo registico che le avvicinasse all'appeal dei cugini Anime.
Il gioco viene annunciato nel 2017. Nel 2016 usciva Valhalla e ad inizio 2020 Coffee Talk, a loro volta dedicati a viaggiatori urbani, amanti di cocktail e caffè nero. Il trend sembrerebbe più occidentale che orientale, e spesso capita che il sostrato nipponico sia del tutto perso, sostituito da un Internet slang più generico. Necrobarista tenta di aggrapparsi al Giappone dal quale prende ispirazione, nonostante sia ambientato a Melbourne: i suoi abitanti sembrano tutto fuorché australiani, non fosse per qualche riferimento geografico qua e là.
