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Amnesia: Rebirth - recensione

Un sibilo di vento, il metallo che geme lamentoso, il caldo soffocante. Appiccicoso, pesante sulla pelle come un passeggero inaspettato e petulante che aggiunge una zavorra quasi insostenibile, che spezza le gambe fisicamente a una persona che sotto tanti aspetti mentalmente le ha già viste spezzarsi da tempo, sotto il peso di macerie forse troppo insostenibili per chiunque.



Tasi non sarà una superdonna, non avrà poteri da avventuriera da far invidia all'eroe macho di turno ma è viva e anche la sua speranza lo è più che mai. Tra i rottami di un aereo abbandonato a se stesso nel deserto algerino, però, Tasi dovrà scendere a patti con una verità che forse fa troppo male. Anche la speranza porta con sé un passeggero ingombrante e soffocante: la paura.



Paura. Essenza di ogni lavoro di Frictional Games, cardine centrale di una software house che dal 2007 ha sempre cercato di fuggire dalla banalità in un settore che il più delle volte fonda il proprio successo proprio su quella banalità, sulla comodità di una scelta sicura e priva di rischi. Ma questo team svedese costituito da una ventina di persone sembra non aver mai apprezzato le cose scontate. D'altronde dopo un successo praticamente unanime di critica e pubblico raggiunto grazie ad Amnesia: The Dark Descent sarebbe stato facile realizzare subito un sequel o perché no un franchise.



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19 ottobre 2020 alle 15:11

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