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Steto96

ha scritto una recensione su Alan Wake Remastered

Cover Alan Wake Remastered per PS5

Secondo una teoria, l'uomo nasce con solo due paure innate, quella dei rumori forti e quella di cadere. Tutte le altre paure entrano o non entrano a far parte del bagaglio di ciascuno secondo esperienza, rendendo di fatto ciascuna fobia come un aspetto soggettivo. Da fuori alcune fobie paiono quasi irrazionali: quanti si sono fatti due risate sapendo dell'esistenza della coulrofobia, la paura dei clown?

In questo contesto creare un'opera horror pare allo stesso tempo un gioco da ragazzi e un'impresa titanica. Tutti sono suscettibili, per natura, al cosiddetto jumpscare, allo stesso tempo non può esistere un horror che possa andare a toccare tutti allo stesso modo. Un ragionamento che rivela una diffusa visione dell'horror inteso come semplice fonte di spaventi e nulla più, quando in realtà il genere è e dovrebbe essere molto di più. Horror è infatti anche l'ansia, l'inquietudine, il dubbio, l'ignoto, uno strumento per riflettere su ciò che siamo, su ciò che facciamo, sul nostro rapporto con il mondo.

Superficialmente Alan Wake parla di una diffusa fobia, quella del buio. Nictofobia della quale soffre la moglie di Alan, Alice, e che si concretizza nella storia maledetta scritta dal protagonista, il buio che possiede, che manipola il mondo circostante, che distrugge, che uccide. Oscurità contro la quale brandire la luce, bene contro male. L'aspetto ludico incarna bene questo manicheismo con un sistema di combattimento semplice e funzionale.

L'oscurità di cui sopra nasconde anche l'arteria principale del cuore di questo titolo, una paura specifica che nelle sue diramazioni diventa universale. L'atto della creazione artistica che così tanto ossessiona chi l'arte la vive appieno, a sua volta costola dell'atto creativo in generale. Al suo interno, tutta una serie di contraddizioni, dubbi e ansie, il timore della scelta, il peso della responsabilità. Quando Alan "uccide" il suo protagonista storico Alex Casey, in qualche modo si sente colpevole di un delitto, il tutto amplificato dalle pressioni esterne del suo pubblico. Responsabilità che si concretizza quando la sua scrittura comincia a decidere il destino di Bright Falls e dei suoi abitanti. Anche il recente The Bookwalker: Thief of Tales mette in scena quello che è l'incontro tra il creatore e la creatura in un mondo nel quale l'atto artistico è di fatto sanzionato.

In fondo, Alan Wake è un protagonista in gran parte negativo, eroe del solipsismo, vittima dei suoi vizi. Un personaggio in gran parte statico, un autore popolare ma non così abile, come alcuni personaggi e le pagine del suo manoscritto lasciano intendere. Non è facile capire se queste siano delle scelte consapevoli o meno. In generale è chiaro che Alan Wake, il gioco, sia stato in qualche modo vittima del suo periodo, dalle sue responsabilità di essere-gioco nel 2010, non per questo anche oggi può vantarsi di brillare di una luce unica e affascinante, al di sotto di un sottile velo di oscurità.

Steto96

ha scritto una recensione su White Shadows

Cover White Shadows per PC

Der Tod ist über der Stadt

White Shadows è il punto di arrivo di un percorso iniziato tempo fa. Negli anni molti giochi hanno rappresentato un punto di svolta per il mercato indipendente. Tra i più grandi nomi c’è quello di Hotline Miami, un titolo il cui impatto riverbera ancora oggi attraverso tutto il settore e non solo, proprio grazie alla sua estetica e al suo stile. Alcuni mesi più tardi è stata la volta di Limbo, primo titolo dello studio Playdead che in seguito ha cementato il proprio posto nel pantheon con l’altrettanto acclamato Inside. Da un successo di tali proporzioni è difficile non aspettarsi una risposta da altri sviluppatori pronti a mettersi in gioco dopo aver imparato da queste pietre miliari.

White Shadows è l’opera prima dei tedeschi Monokel, come loro stessi annunciano orgogliosi nell’apertura del titolo. Fin dai primi momenti di gioco è subito chiaro quali siano le fondamenta sulle quali poggia il gioco, dallo stile monocromatico, cifra stilistica del già citato Limbo, alla citazione tratta da La Fattoria degli Animali di George Orwell: “All Animals Are Equal”. Insomma, chi ha dimestichezza vuoi con una, vuoi con entrambe le opere è già possibile intuire dove potrebbe condurre questo viaggio.

Ecco, viaggio è la parola più adeguata a descrivere l’esperienza vissuta con White Shadows. Si parte dai bassifondi di una misteriosa città, nei panni di una ragazza dalla testa di corvo appena emersa da un enorme telefono abbandonato sul fondo di un vertiginoso complesso di torri metalliche. Qui si muovono i primi passi, in assenza di un qualsiasi tutorial, anche se oltre al movimento, al salto e all’interazione con alcuni elementi di gioco non c’è poi molto altro da insegnare. Comincia così la scalata verso una città inondata di luci abbaglianti tanto quanto i luminosissimi occhi della protagonista, e ben presto è chiaro che l’accesso ci è proibito, in quanto uccelli e quindi portatori di una non specificata piaga.

Durante i primi minuti di gioco dominano allo stesso tempo curiosità e timore nei confronti di ciò che attende il giocatore, frutto di un sapiente lavoro sulle atmosfere del gioco: cupe e fredde tanto perché ricavate da lucido acciaio quanto perché immerse in un silenzio assordante interrotto da scricchiolii sinistri. La voglia di capire cosa sta succedendo, come si è arrivati a questo mondo sospeso tra 1984 e La Fattoria degli Animali, qual è lo scopo della nostra protagonista, è talmente forte da spingere quasi in una corsa timorosa verso l’ignoto. White Shadows riesce a mantenere sempre vivo l’interesse e a concludere il tutto con un enigmatico ma assai suggestivo finale. Peccato per un terzo atto forse un po’ troppo debole, che abbandona la narrazione ambientale per proporre un racconto per certi versi più tradizionale. Pare quasi che gli sviluppatori non fossero convinti delle proprie capacità o non avessero fiducia nell’interpretazione dei giocatori.

L’intenzione del gioco è, in primis, quella di raccontare una storia. L’aspetto ludico non è trascurato e non mancano sezioni nelle quali evitare ostacoli, saltare tra piattaforme, nascondersi dalle luci delle guardie e risolvere semplici enigmi, ma in caso di fallimento il sistema di punti di controllo è molto più che benevolo e spesso riporta il nostro personaggio a pochi passi prima della sua dipartita. Pur essendoci sezioni più impegnative, il gioco non intende punire i meno capaci per un salto mal calibrato o una piccola disattenzione.

Come già detto, un primo sguardo sembra confermare la parentela, quantomeno visiva, con Limbo. White Shadows punta molto sul contrasto tra luce e oscurità anche per via dei temi proposti dalla storia che il titolo desidera raccontare. Lo studio Monokel non ha voluto semplicemente emulare la formula di Playdead, ma ha voluto infondere la propria creatura con la linfa delle sue radici tedesche. I richiami al cinema espressionista teutonico si sprecano, con architetture, inquadrature e scelte stilistiche derivate da classici come il Metropolis di Fritz Lang. Inoltre, quando l’avanzata della protagonista non è apostrofata dai rumori ambientali, la colonna sonora propone una selezione di celebri pezzi di musica classica. Il comparto audio passa così da un lugubre minimalismo a un tono grandioso e talvolta grottesco per via delle situazioni descritte.

White Shadows è un titolo che forse non dirà molto a chi si fermerà soltanto a guardare alcune immagini prese da un qualsiasi momento del gioco. Il vero prodigio una volta in movimento, merito di una regia davvero ispirata e pronta a proporre sempre inquadrature che parlano agli occhi del giocatore, con alcuni cambi di prospettiva di grande effetto all’interno di questo piccolo, grande diorama. Purtroppo, non tutte le transizioni sono gestite al meglio: talvolta sono inspiegabilmente interrotte da scene fuori contesto, in alcuni casi sono azzoppate dalla realizzazione tecnica del titolo, non priva di sbavature

A dettaglio massimo, White Shadows si presenta a sessanta frame al secondo per gran parte del tempo, ma soffre di severo stuttering durante alcuni passaggi tra scene. In alcune occasioni è evidente un certo pop-out di elementi tanto dello sfondo quanto nei primi piani delle inquadrature. Tutto sommato si tratta di eventi non così frequenti, esaltati più che altro dalla risicata longevità del titolo. Infatti, il gioco può durare attorno alle tre orette, minuto più, minuto meno. Per alcuni potrebbe sembrare troppo poco e da un lato si sarebbe potuto fare di più anche per permettere alla storia di respirare ancora. D’altro canto, così com’è presentata l’esperienza, si può parlare di tre ore ben bilanciate e soddisfacenti. È anche da segnalare l’assenza della lingua italiana e, anche se il gioco non presenta troppe linee di testo, questo fattore potrebbe allontanare chi meno conosce la lingua inglese.

È difficile guardare White Shadows e non pensare ad alcuni piccoli colossi del mercato indipendente, ma la forza di questo titolo tedesco è quella di riproporre una formula già vista sotto un’altra luce, letteralmente. Benché la trama inciampi a pochi passi dal traguardo, il mondo orwelliano raccontato con un sapiente linguaggio cinematografico è tanto affascinante quanto terrificante. I giocatori in astinenza dai titoli targati Playdead troveranno non solo una buona alternativa, ma anche un gioco capace di dire la sua nonostante le numerose e palesi ispirazioni. Arrivati ai titoli di coda, è difficile non immaginarsi un florido futuro per i capaci Monokel.

Steto96

ha scritto una recensione su Maquette

Cover Maquette per PS5

Maquettepensi

L’ambizione di Maquette è quella di presentare un’esperienza dichiaratamente story driven unita a intriganti meccaniche da puzzle game. Il debutto del team Graceful Decay è un titolo dalle premesse sicuramente interessanti, ma arrivati ai titoli di coda la voce che si fa sentire più forte è quella della delusione.

Secondo le parole dei creatori, Maquette è prima di tutto un puzzle game in prima persona quando in realtà si avvicina di più ad alcuni dei più celebri walking simulator visti negli scorsi anni. È vero che gran parte del gameplay ruota attorno alla risoluzione di rompicapi costruiti attorno al concetto di ricorsività, ma tra un enigma e quello seguente non sono rari momenti più guidati attraverso ambientazioni oniriche, rappresentazioni visive della storia che il gioco intende raccontare.

Interamente doppiata da Bryce Dallas Howard e Seth Gabel, quella di Maquette è una storia di un amore che nasce, cresce, avvizzisce e muore. Trattare un soggetto così comune solitamente richiede una narrazione che lo metta in risalto con altri mezzi, ma non è il caso di Maquette. I dialoghi tra i due protagonisti sono molto credibili grazie al lavoro dei due attori, ma il tutto è scritto con fin troppa superficialità, risultando insipido, dimenticabile, persino lontano dal giocatore. Anche le metafore visive sono poche e banali e distruggono il legame tra gameplay e racconto. In sintesi, non si tratta di una storia brutta quanto piuttosto di una storia del tutto innocua.

Come già detto, il gioco alterna sezioni più lineare, con enigmi più semplici, a zone più grandi nelle quali la ricorsività è protagonista. Il titolo fa riferimento a questi modellini in scala contenuti a loro volta in un modello in scala e così via. Le ambientazioni sono solo idealmente contenute in loro stesse all’infinito, ma questo permette di giocare con gli elementi al loro interno in modi inaspettati. Infatti, è possibile raccogliere alcuni degli oggetti presenti nell’ambientazione e depositarli all’interno del modellino per giocare con la loro scala, facendoli apparire più grandi nelle controparti al di fuori del modellino. Così una chiave può aprire porte oppure essere usata come ponte e non solo.

È una meccanica simile a quella di titoli come Superliminal, che pure gioca con le dimensioni degli oggetti presenti nel mondo di gioco in relazione alla posizione e alla prospettiva. Là dove Superliminal espande il concetto alla base trasformandolo in continuazione e mantenendolo fresco durante l’intera durata dell’esperienza, Maquette invece propone ben poche variazioni sul tema e quindi non permette a questa ingegnosa premessa di rispettare le aspettative. I rompicapi proposti sono tutto sommato pochi, a volte banali e sempre poco proni a permettere qualche grado di sperimentazione da parte del giocatore. Se il gioco si fosse presentato principalmente come avventura narrativa, la mancata focalizzazione su questo aspetto sarebbe meno grave. Un confronto con What Remains of Edith Finch ricorda bene che non sempre il minimalismo ludico porta a consegnare un’esperienza dimenticabile.

Gli ambienti di gioco nel complesso sono molto colorati, con un’estetica per certi versi tendente al low poly per ricordare il tema del modellino in scala, pur senza lesinare su alcuni dettagli una volta visti da vicino. Se questo vale per i livelli più aperti, le sezioni di raccordo tendono a presentarsi più smunte e grigie, meno riconoscibili, quasi astratte. È pacifico dire che si tratta di una scelta dovuta al tono narrativo del momento, ma il più delle volte questo non aiuta a sottolineare il dramma della storia, quanto piuttosto tende ad annacquare il momento con paesaggi poco ispirati.

Su PS5 il gioco non stupisce l’occhio, anzi alcuni potrebbero soffrire di motion sickness per via del campo visivo molto ristretto e di un eccessivo blur. È anche deludente constatare che le funzionalità del Dualsense non vengono sfruttate a dovere, meglio ancora non vengono sfruttate affatto. Inoltre, data la cura riposta nella scelta degli attori per il doppiaggio e dei brani che compongono la colonna sonora, la bassa qualità audio delle tracce musicali e parlate è quasi stupefacente. Il suono è sporco e ovattato e si nota ancora di più ascoltando il titolo in cuffia.

Tra i titoli curati da Annapurna, Maquette è forse uno dei più interessanti nel concetto e insoddisfacenti nella pratica, ma non per questo merita di essere del tutto sconsigliato e dimenticato. L’idea alla base del gioco è senza ombra di dubbio unica e la dice lunga sulle abilità dei componenti di Graceful Decay, ai quali non si può che augurare il meglio per il futuro in attesa del loro prossimo progetto. La strada è in salita, ma questo significa essere sempre più vicini alle stelle.

Steto96

ha scritto una recensione su Astro's Playroom

Cover Astro's Playroom per PS5

Trigger Happy

Al momento in cui scrivo queste parole, è ormai passato da giorni il primo anniversario della nona generazione video-ludica. Dai mesi precedenti alla loro messa in commercio la discussione si è prevalentemente spostata sulla scarsità di unità presenti sul mercato, smorzando di fatto qualsiasi discorso legato ai pregi e difetti che questa nuova serie di console ha portato sul piatto, anche se forse sarebbe il caso di ridefinire, o meglio definire, il concetto stesso di “generazione”. Ora come ora la generazione viene definita da un generico avanzamento tecnologico, più legato alla pura potenza delle console che ad altri suoi aspetti, quando invece la chiave per un futuro diverso potrebbe risiedere altrove. Negli scorsi anni, per esempio, abbiamo assistito alla crescita esponenziale del mercato VR, un po’ il simbolo di un nuovo concetto di gioco anche se forse lontano dalla sua vera maturità.

Pur con i suoi difetti, la PS5 sembra essere un primo passo verso questo nuovo ideale. Finora pochi o forse nessun gioco ha permesso di capire veramente le possibilità date dall’SSD a livello di Game Design puro e semplice, al contrario appena accesa la nuova console Sony è immediatamente possibile provare con mano le possibilità offerte dal Dualsense esclusivo per la nuova ammiraglia nipponica, perché è difficile spiegare quanto questa periferica possa fare la differenza soltanto a parole. Per fortuna, installato direttamente sulla PS5, c’è Astro’s Playroom.

L’ex Japan Studio è da sempre stato il team responsabile nel fornire alle console Sony un biglietto da visita da consegnare ai giocatori fin dalla prima Playstation, dimostrando le potenzialità del nuovo Dualshock con due levette analogiche attraverso il memorabile Ape Escape, della realtà aumentata con The Eye of Judgment e The Playroom, della Vita con Gravity Rush o del PSVR con la nuova mascotte Astro, citando solo alcuni titoli. Sempre assieme al robottino blu, ormai mascotte ufficiosa Sony, si entra in questo Astro’s Playroom, un parco a tema nel quale sperimentare tutto ciò che il nuovo sistema, in particolare il Dualsense, ha da offrire.

Senza troppi giri di parole, è vero che Astro’s Playroom è una enorme pubblicità tanto per la console quanto per l’intero brand Playstation. Ambientato all’interno della stessa PS5, si tratta di un viaggio attraverso tutte le sue componenti: partendo dalla CPU Plaza si può selezionare uno tra i quattro mondi dedicati ciascuno all’SSD, al sistema di raffreddamento, alla GPU e alla RAM, termini per alcuni magari astratti qui trasformati in luoghi magici nei quali saltare godendosi i coloratissimi universi pieni di dettagli. Raggiungere la fine del livello è quasi un obiettivo secondario data la mole di contenuti nascosta in ciascun livello. In primis il gioco nel gioco è quello di scovare le miriadi di citazioni ai giochi che hanno fatto la storia e la fortuna di Playstation, da God of War a Shadow of The Colossus, passando anche per Sly Cooper, Journey e anche qualche sorpresina per i fan. Raccogliere monetine e collezionabili lungo il percorso permette di decorare un museo digitale popolato da tutte le console Playstation assieme ai loro accessori più o meno celebri, senza contare che ognuno dei quattro percorsi celebra ciascuna di esse una volta raggiunto il traguardo. Non manca anche qualche chicca alla fine dell’esperienza e una modalità speedrun per testare le proprie capacità in ciascun percorso.

Astro’s Playroom è tanto bello da guardare e da ascoltare quanto da sentire con le proprie mani grazie al Dualsense. Il nuovo controller Playstation permette di tradurre in feedback una vasta gamma di sensazioni grazie alle precise vibrazioni emesse dalla periferica. Così quando Astro cammina sulla nuda terra, sul metallo o sull’erba sul palmo delle mani di chi tiene il Dualsense è possibile sentire e riconoscere ciascuna superfice anche a occhi chiusi. In più di un’occasione Astro’s Playroom fa anche sfoggio dei grilletti aptici e dei sensori di movimenti, principalmente grazie a quattro diversi minigiochi legati a ciascun mondo. Così ecco che lo sforzo combinato di suoni, vibrazioni e feedback aptico regala la sensazione di spingere davvero una molla che resiste alla pressione delle dita e così via. C’è davvero bisogno di provare per capire il perché dell’entusiasmo con il quale chi ha già tenuto in mano questo controller lo descrive e guardando al futuro si spera che nei piani di Sony ci sia anche la volontà di implementare queste tecnologie nel suo prossimo Visore per la Realtà Virtuale.

In un certo senso, parlare dei pregi di Astro’s Playroom è come parlare dei pregi del Dualsense, un’ottima presentazione di ciò che questa periferica è in grado di fare. Un titolo che si pone come metro di paragone per i giochi che verranno, un’asticella tutto sommato alta data la qualità di questo gioco, ma è giusto chiedere agli sviluppatori di superarla al meglio delle loro possibilità, perché rappresenta per loro un ottimo strumento attraverso il quale regalare esperienze ancora più ricche e profonde. In alcuni casi potrebbe essere anche un fattore da tenere conto quando si parla delle versioni multipiattaforma, perché se ben sfruttato il supporto al Dualsense rappresenterebbe una marcia in più per le versioni PS5 dei giochi che si servono al meglio di questa feature.

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