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The Town of Light – Recensione

Alcuni videogiochi non sono per tutti, altri videogiochi invece andrebbero giocati a prescindere dai propri gusti. The Town of Light fa parte, a mio avviso, di entrambe le categorie. Con l'aumentare dei titoli a basso coefficiente di gameplay, ne sono aumentati anche i detrattori, coloro i quali sostengono che un videogioco per potersi definire tale deve avere una struttura di interazione ben definita e se non ricca, quantomeno sufficiente. È proprio a questi individui che, per primi, consiglio di giocare il piccolo gioiello dell'italiana LKA suggerendogli di fare una più profonda riflessione sul concetto stesso di interazione e, di conseguenza, su quanto il fattore emotivo pesi nell'equazione “videogioco = gioco interattivo su schermo”.



D'altro canto è impossibile negare come The Town of Light sia uno di quei giochi non adatto ad un pubblico qualsiasi. In primis, i contenuti sono piuttosto forti e quindi assolutamente sconsigliati ad un pubblico troppo giovane (o facilmente impressionabile, dico io), e in seconda battuta la sua natura narrativa e fortemente emozionale può presentarsi come un ostacolo tra quanti bollerebbero questa avventura come l'ennesimo non-videogioco. Nulla di più lontano dalla realtà.



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The Town of Light è realmente un gioco in cui a farla da padrone è lo storytelling, è un gioco in cui effettivamente il gameplay è ridotto al minimo indispensabile ma è anche la dimostrazione lampante che tutto questo può coniugarsi all'interno di un prodotto di grandissima qualità. Non sto dicendo che il titolo in questione sia un capolavoro assoluto, sto solo dicendo che questo titolo centra perfettamente il suo obiettivo che, a differenza della stragrande maggioranza dei suoi simili, non si limita al puro intrattenimento. The Town of light vuole metterti a conoscenza di una particolare realtà che è parte della nostra storia e lo fa nel modo più genuino possibile, attraverso l'immedesimazione.
Una fantasia troppo reale



Prodotto di un lungo, attento e impressionante studio di fatti, luoghi, e pratiche, LKA ci racconta non UNA storia, bensì LA storia di un paziente ricoverato in un manicomio alle soglie della seconda guerra mondiale. Esplorando ciò che resta di uno dei padiglioni dell'ospedale di Volterra ci troviamo a rivivere il percorso clinico ed emotivo di Renèe, una giovane internata. Quella di Renèe è infatti LA storia e al contempo nessuna storia, un personaggio inventato attraverso cui possiamo sperimentare sulla nostra pelle tutti quegli avvenimenti e quelle montagne russe emotive che sono stati la norma per le persone con disturbi mentali in un passato nemmeno troppo lontano. È chiaro, in questo contesto, che il gameplay si configura come tramite, come mero strumento di interazione utile di aumentare il livello di empatia man mano che si procede nella storia.



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La sensazione di ineluttabilità che ci accompagna fin dalle prime battute è frutto di un perfetto mix di elementi fortemente ancorati alla realtà, come cartelle cliniche, diari e ambientazione e ispirati elementi artistici, come i meravigliosi disegni in stile fumetto attraverso cui conosciamo le traversie vissute in clinica dalla protagonista. Con, in aggiunta tra questi ultimi, quella che io ho interpretato come citazione alla bellissima scena di Profondo Rosso in cui il pianista Marc Daly scopre il passato nascosto dell'assassino, ma non mi spingo oltre per non rovinare la sorpresa.



Al di là dell'esplorazione guidata e di alcuni elementari enigmi, sono le scelte multiple ad incidere realmente sullo svolgimento della trama poiché permettono di cambiare prospettiva e arrivare quindi all'unica conclusione possibile (per un'esperienza di questo tipo) seguendo un punto di vista piuttosto che un altro. Da sottolineare, secondo me, alcune sequenze molto ben riuscite e che si svolgono nei labirinti della mente di Renèe; un accompagnamento musicale in perfetta sintonia anche grazie all'uso di musiche originali e nenie tipiche della tradizione italiana, penso soprattutto a un Madama Dorè che, come effetto disturbante, non si discosta molto dal famoso “Uno, due e tre, Freddy viene per te”.



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Una cosa che ho apprezzato tantissimo nel titolo di LKA è stato appunto quello di non scimmiottare prodotti stranieri (e ce ne sarebbe stata l'occasione) ma raccontare una storia che è permeata di cultura italiana in ogni suo aspetto. L'utilizzo di Madama Dorè è solo un piccolo esempio. Il contesto socioculturale da cui Renèe viene fuori è il prodotto di quell'ignoranza e quel bigottismo tipici di una certa classe sociale dell'epoca. La miseria umana mostrata non richiama i drammi d'oltreoceano è, anzi, molto vicina a noi piuttosto e forse per questo ancora più dolorosa.



The Town of Light è a tutti gli effetti il prodotto coraggioso di una software house coraggiosa. Un titolo che porta in alto la bandiera della nostra nazione e mostra al mondo come non ci sia bisogno di uniformarsi per ottenere successo. Attraverso un linguaggio universale e facilmente comprensibile LKA ha messo in luce un pezzo d'Italia che forse in pochi conoscevano.



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23 giugno 2017 alle 10:00