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One Piece: Burning Blood - recensione

Bandai Namco ha la fortuna di possedere i diritti di alcune delle serie animate di maggior successo in ogni angolo del globo. Quelli di Naruto, Dragon Ball e One Piece sono titoli che da soli basterebbero per radunare un'orda tale di fan da far impallidire i più grandi successi del mercato dei videogiochi (in termini di vendite), compresi Call of Duty e Assassin's Creed.



Per cercare di sfruttare al meglio tali serie, in tanti anni di onorata carriera Bandai Namco ha più volte spinto gli sviluppatori a inventare nuovi modi per raccontare le medesime storie. Abbiamo perso il conto del numero di incontri che abbiamo combattuto contro Freezer vestendo i panni di Son Goku. O delle sfide tra Naruto e Sasuke di fronte alle mastodontiche statue dei ninja.



Non potendo modificare troppo la storia originale senza deludere i fan, gli sviluppatori sono sempre stati costretti a lavorare sul gameplay, spesso cambiando drasticamente direzione rispetto ai giochi realizzati in precedenza. Questo è esattamente ciò che è accaduto con la saga di One Piece, che dopo qualche tentativo con i gdr e con i musou è finalmente approdata nel mondo delle mazzate tridimensionali con One Piece: Burning Blood, lo stesso dove Naruto si è già tolto tante soddisfazioni.

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7 giugno 2016 alle 10:40