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Dishonored 2 - recensione

Il destino favorisce chi osa, un motto con cui è bello riempirsi la bocca ma che in molti, troppi casi non si rivela assolutamente realistico. Quando crei un prodotto ti trovi inevitabilmente a dover soppesare i rischi e, nonostante le buone intenzioni, a tirare i remi in barca alla ricerca di una struttura più conservativa e sotto molti aspetti sicura. È così che nascono i franchise, è così che i publisher e gli sviluppatori danno vita alle serie e alle saghe e che per un buon numero di anni si cerca di spremere al meglio creando nuovi giochi con uno sforzo, dal punto di vista concettuale, relativamente contenuto.



I casi sono innumerevoli, con una qualità produttiva inevitabilmente altalenante. Ai brand storici conosciuti da tutto il pubblico, tuttavia, le compagnie impegnate nelle produzioni AAA hanno deciso di affiancare anche qualche nuova IP dando per esempio fiducia a team che nel corso degli anni non erano riusciti a distinguersi a pieno nonostante il talento e le potenzialità. In questo scenario Bethesda ha saputo lavorare in maniera eccelsa trasformandosi dall'azienda sinonimo di Fallout e The Elder Scrolls a una piccola grande potenza che può contare su una serie di software house e di videogiochi da far invidia ai colossi storici del settore.



Al di là delle critiche che hanno colpito Fallout 4 (il comparto tecnico non eccelso e l'abbandono di alcune meccaniche RPG hanno fatto discutere), negli ultimi anni sono arrivati sul mercato produzioni che per un motivo o per l'altro rappresentavano una scommessa. Doom e Wolfenstein: The New Order e The Old Blood appartengono a un tipo di fps considerato in passato sostanzialmente morto; The Evil Within è una tipologia di survival-horror che è in via d'estinzione e infine Dishonored è un'altra scommessa nata dalla mente dei ragazzi di Arkane Studios.

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14 novembre 2016 alle 18:10