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Kingdom Hearts III - recensione

Ci sono recensioni in cui tendiamo a mettere sotto al microscopio la filosofia di game design e l'esecuzione tecnica, facendo una sorta di lucido bilancio economico dell'esperienza di gioco. A volte, invece, capita di trovarsi di fronte a un titolo che l'intera community attende da 14 anni e nel quale, ironicamente, si è lasciato un pezzo di cuore.



Kingdom Hearts 3 è stato niente più che un miraggio per oltre un decennio, mentre l'universo narrativo cresceva lungo miriadi di piattaforme diverse, mentre Tetsuya Nomura abbandonava la direzione di Final Fantasy XV per dedicarsi unicamente alla sua creatura prediletta. Nonostante l'affetto, di conseguenza, era inevitabile avvicinarsi al terzo capitolo della saga principale con un briciolo di diffidenza, o meglio, con un po' di timore per il destino di Sora e compagni.



Se non fosse che, non appena si preme il pulsante start, ci si trova a camminare su una vetrata familiare, accompagnati da una colonna sonora che profuma di casa e da un'atmosfera che mancava da tanto, troppo tempo sulle nostre console. Misteriose scalinate si materializzano all'improvviso, laghi cristallini si estendono a perdita d'occhio, enigmatiche porte si spalancano sul nulla, e in un batter d'occhio ci si perde a correre assieme a Woody e Buzz per il vicinato di Andy, con le inconfondibili note di "You've got a friend in me" in sottofondo. Ed è in quel momento che le incertezze sembrano crollare come un castello di carte, schiacciate dal potere della nostalgia e dalla ritrovata sete di scoperta.

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24 gennaio 2019 alle 16:20