Wolfenstein: Youngblood - recensione
Sotto la sapiente guida di Bethesda e nelle mani dei talentuosi ragazzi di Machine Games, l'epopea di B.J. Blazkowicz ha saputo rinnovarsi nella più florida delle maniere. La capacità di preservare l'identità di una saga storica del medium videoludico tutto, e seminale per il genere fps, è un risultato di alta caratura. I recenti trascorsi di Wolfenstein sono quanto di più intuitivo, fresco e divertente si potesse chiedere per un franchise che si affaccia ormai alla dozzina di capitoli (tra parentesi più o meno riuscite) all'attivo, da quel Castle Wolfenstein dell'81 che certamente più di qualcuno rimembrerà sino a Youngblood.
Al netto di una formula sempre efficace nello shooting, per merito di un gunplay scattante, immediato e galvanizzante e di una rifinitura sempre maggiore nella cosmogonia distopica del trionfo mondiale nazista, forse un punto di saturazione si è raggiunto. Youngblood è uno spin-off particolare, quasi sperimentale, che sembra mostrarci la volontà di Bethesda e Machine Games di offrire una prospettiva diversa per una saga che ha sempre fatto del divertimento, dell'accessibilità, del single player story driven (e dello sterminio dei nazisti) i suoi cavalli di battaglia.
Ecco, dunque, che oggi si guarda oltre, non soltanto nell'ottica di un'esperienza appositamente pensata per la cooperativa tra due giocatori, ma anche in termini di progressione e struttura ludica, annoverando tra le firme allo sviluppo del progetto niente di meno che lo studio di Lione degli Arkane, genitori della saga di Dishonored. Gli ingredienti ci sono tutti, no? Mettetevi comodi, perché dopo le impressioni sulla breve prova che vi abbiamo proposto in occasione dell'E3 di quest'anno, è tempo di verdetti definitivi su quello che è certamente uno dei progetti più attesi di questa pigra stagione estiva.
