Tutto quello che The Witcher 3 ha azzeccato - articolo
Recentemente - e dico recentemente ma sembra un'eternità fa visto che era prima del lockdown - ho cominciato una nuova partita a The Witcher 3 dall'inizio. Non per via della release su Switch però, sebbene sia una conversione davvero ben fatta, per me questo è un gioco da grande schermo. Un po' perché la serie Netflix ha spinto il gioco a diventare ancora di più di dominio pubblico, ma principalmente perché non avevo nulla di nuovo da giocare, o meglio niente di nuovo mi ispirava. Ero alla ricerca di un qualcosa che mi desse soddisfazione nella routine delle attività e dell'esplorazione. Volevo imbarcarmi in una quest, migliorare la mia armatura, continuando con un loop di attività-ricompensa. Volevo essere debole per poi diventare forte, avere un look scompigliato per poi sfoggiare un aspetto sfavillante, volevo essere semplice per poi diventare sofisticato. Volevo un gioco che mi desse conforto.
Quello che ho trovato è un gioco che è rimasto esattamente come me lo ricordavo - ovviamente, so che è successo di tutto ma cinque anni non sono così tanti. Lo amo ancora, ma forse non per le stesse ragioni della prima volta. Non sono queste le cose che mi hanno riportato a giocarci né tantomeno le cose che me lo hanno impedito.
Mi sono abituato a pensare a The Witcher 3 come ad un capolavoro di world-building e narrazione, aggrappato ad uno scheletro funzionale se non mediocre di RPG. Il combattimento non sempre fluido e a volte carente in raffinatezza, che non sembra cambiare molto con i punti abilità spesi. L'opinione generale era che il suo più grosso punto di forza fosse l'enorme quantità di quest, con una profondità narrativa incredibile in una ambientazione che ritrae un mondo medievale complicato e cupo, per il quale non esiste redenzione.
