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Rime - recensione

Il rischio cliché è dietro l'angolo e in un certo senso è quasi inevitabile quando si parla di un gioco come Rime. L'opera seconda degli spagnoli di Tequila Works sembra fatta appositamente per essere etichettata, per presentarsi come uno dei giochi più emblematici di questa generazione. La storia stessa del progetto è in un certo senso un concentrato di pura e semplice banalità. Dopo il lancio di un action-platform dotato di spunti interessanti ma non certo degno di entrare a far parte dell'Olimpo del genere come Deadlight, la software house si mette al lavoro su un gioco che dovrebbe rappresentare il più classico dei salti di qualità.



Rime si mostra per la prima volta alla Gamescom del 2013 come un'esclusiva PS4 dopo che le prime bozze del progetto (conosciuto come Echoes of Siren) vennero scartate da Microsoft. Accoglienza entusiastica, paragoni di peso alle opere del Team ICO e a The Legend of Zelda: The Wind Waker, un altro trailer e poi il baratro delle critiche, dei rumor e dello scetticismo. Si parla di un progetto che non esiste, un involucro vuoto creato appositamente per i trailer ma lontanissimo dall'essere giocabile e vittima dell'ego smisurato del suo director: l'ex Mercury Steam, Raul Rubio Munarriz.



La goccia che fa traboccare il proverbiale vaso? Sony che vende l'IP agli sviluppatori perdendo l'esclusività e facendo pensare a un titolo nato male e cresciuto ancora peggio. L'hype lascia spazio allo scetticismo e in molti si preparano all'inevitabile fallimento. Tuttavia eravamo stati chiari in apertura: Rime sa essere banale e non è certo una critica.

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25 maggio 2017 alle 17:10