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Recensione Death Stranding 2: On the Beach

Analisi Generale



Era il 2019. Un pomeriggio come tanti altri, scandito dal bip della console e dal controller in mano, il tasto X premuto con l'attesa di un rito. Poi, le ventole della PlayStation 4 pronte a partire con lo stesso suono di un aereo in decollo, e sullo schermo, un volto conosciuto: Norman Reedus, su una montagna innevata. In quel momento, il primo Death Stranding non si limitava a presentare un videogioco; offriva un'esperienza che si imprimeva con la forza di un'incisione nell'anima del giocatore. Si trattava di quando Sam Porter Bridges si ritrovava privato della capacità di percepire le inquietanti Creature Arenate, un potere che dipendeva interamente dalla sua connessione con Lou. Questa non era solo una meccanica di gioco che veniva meno; era una privazione che obbligava alla riflessione sul rapporto con Lou, sulla profondità e l'importanza del legame che univa il protagonista a lei, un legame forse dato per scontato fino a quel momento. Il gioco operava in maniera spietatamente pragmatica, sottraendo una meccanica fondamentale per stimolare una reazione profonda, costringendo a conferire un peso reale a quel rapporto in un mondo alla deriva che si stava lasciando scivolare verso l'estinzione della specie. Death Stranding era un videogioco che procedeva esattamente in questo modo: concedeva al giocatore strumenti e connessioni per poi toglierli di mezzo, trasformando quel vuoto in un'occasione di introspezione e di crescita. Era corda e bastone, una metafora perfetta per i temi di un'opera dirompente sia nelle ambizioni che nella struttura, un'opera che parlava di connessione, solitudine e rinascita.



Copertina – fonte Kojima Production



Death Stranding 2: On The Beach si presenta come un gioco grandioso che sa cosa vuole fare da grande. Porta su di sé l'ombra di essere un po' meno “esperienza” e un po' meno unico del primo – eppure rimane inconfondibile e stravagante rispetto a qualsiasi altra opera sul mercato, dato che non c'è niente che gli somigli. Ne emerge un more of the same incrementale che suona strano per Kojima, un autore da sempre voglioso di reinventare la ruota, la macchina e pure il fuoco se servisse. Questo sequel aggiunge strati su strati alla sua esperienza di gameplay, anche a costo di diluirne le unicità paradigmatiche, che sono (e dovrebbero rimanere) sinonimo stesso di Death Stranding. Se nel 2019 il primo gioco era definibile come “bianco o nero”, un titolo che si sarebbe amato o odiato senza vie di mezzo, qui si parla di “bianco e nero”, perché DS2 riesce a essere tutte e due le cose insieme. È un grigio di scelte banalmente ammiccanti e di altre uniche al contempo: un videogioco che grida prepotentemente di essere prima di tutto “opera”, ma che lo fa essendo molto più “prodotto” del suo predecessore. Non può replicare la potenza dirompente e unica del suo capostipite, ma rimarca con una delicatezza rara – che fa bene ai videogiochi e a chi li gioca – che di scatola in scatola si consegnano agli altri anche un pezzetto di sé. E che quindi questa cosa chiamata amore, chiamata legami tra esseri umani, fa tanto male ma anche tanto, tanto bene insieme. Proprio come Death Stranding 2.



La carriera di Hideo Kojima è costellata di titoli che hanno ridefinito generi e aspettative. Da Policenauts a Snatcher, fino alla serie Metal Gear Solid, il suo nome è sempre stato sinonimo di narrazioni complesse, metafore stratificate e un'integrazione quasi simbiotica tra trama e meccaniche di gioco. Metal Gear Solid, in particolare, ha elevato lo stealth a forma d'arte, non solo con un gameplay raffinato, ma con storie che affrontavano temi come la guerra, l'identità, la genetica e il controllo dell'informazione, spesso con una verbosità e una prolissità cinematografica che sono diventate la sua cifra stilistica. La sua capacità di infondere significato anche nelle follie più estreme – ninja masochisti, bombaroli pazzi sui pattini, vampiri immortali – risiedeva nella loro funzionalità all'interno di un contesto narrativo solido e potentissimo, capace di trovare sempre una giustificazione (credibile o meno) alla loro esistenza. Questa era la magia di Kojima: prendere l'assurdo e renderlo parte integrante di un universo coerente e significativo.



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fonte Kojima Production



Il primo Death Stranding ha rappresentato un'ulteriore evoluzione, un'opera che ha osato sfidare le convenzioni del medium, ponendo al centro l'atto del camminare e del connettere come metafora della condizione umana. Il suo gameplay, sebbene divisivo, era intrinsecamente legato ai temi della solitudine, della costruzione di legami e della resilienza. Era un gioco che chiedeva pazienza e offriva in cambio una profonda riflessione. La sua natura contemplativa, la sfida di affrontare un mondo ostile con mezzi limitati e la gratificazione nel vedere le proprie azioni contribuire a una rete più ampia, hanno creato un'esperienza unica, quasi meditativa, che trascendeva la semplice interazione ludica per toccare corde emotive profonde. La connessione asimmetrica, in particolare, non era solo una trovata tecnica, ma un'espressione tangibile del tema della solidarietà in un mondo frammentato, un'innovazione che ha lasciato un segno indelebile nel panorama videoludico.



In Death Stranding 2, tuttavia, questa coerenza autoriale sembra vacillare. Il sequel riprende il discorso lasciato parzialmente in sospeso dal predecessore, immergendo il giocatore nei postumi di quel Last Stranding scampato, con un'introduzione mozzafiato che dialoga splendidamente con la chiusura del primo capitolo. La nuova camminata di Sam, stavolta in un Messico digitale suggestivo, in compagnia di una Lou cresciuta e liberata dalla sua capsula, suggerisce una continuazione dei temi di crescita e connessione. Lou, in particolare, continua a essere un simbolo potente di vulnerabilità accettata e di legame umano, un punto fermo in un universo altrimenti in costante mutamento.



Il Messico e l'Australia di Death Stranding 2 godono del vantaggio di un mondo già delineato, permettendo ai personaggi di essere liberi dalle costrizioni narrative di introdurre il setting. Il primo terzo di gioco, pur fungendo da tutorial, evidenzia immediatamente i notevoli passi avanti nel sistema di gioco. Il traversal è splendidamente rifinito, con un sistema di bilanciamento del carico ancora più intuitivo e un'interazione con l'ambiente che rende ogni passo una decisione tattica. L'utilizzo della strumentazione chirale è migliorato, offrendo nuove opportunità per superare ostacoli e creare percorsi. L'interfaccia utente è stata profondamente rivista in ottica di quality of life, con menu più snelli e informazioni più chiare, riducendo la frustrazione e aumentando il flusso di gioco. La gestione del carico è semplificata, lo zaino può essere scaricato per incursioni stealth, e i nuovi “gadget” sono vari e divertenti, aggiungendo strati di complessità e opzioni strategiche al già robusto sistema di movimento e pianificazione delle consegne. Droni da ricognizione, armi non letali avanzate e strumenti per manipolare l'ambiente offrono al giocatore una libertà d'azione senza precedenti. Death Stranding 2 si gioca meglio sotto ogni punto di vista, anche i più insospettabili, rendendo l'atto del “portare” più dinamico e meno ostico per chi trovava il primo capitolo troppo lento.



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Lucy e Neil



Si è di fronte a un titolo decisamente più action del primo, che integra all'interno della sua struttura un sistema di combattimento radicato nelle parti migliori di Metal Gear Solid 5, sia nel level design (gli accampamenti dei briganti non sono più piattissimi e inutili, ma aree complesse e stratificate che offrono molteplici approcci, incoraggiando l'esplorazione e la pianificazione tattica, con punti di ingresso e uscita multipli, percorsi sopraelevati e sotterranei) che di quello della varietà degli approcci. Sebbene DS2 rimanga un gioco di consegne, le sparatorie sono sorprendentemente migliorate, e le possibilità di approccio furtivo sono potenziate da un arsenale vario (fucili da cecchino, pistole tranquillanti, granate stordenti, oggetti per il corpo a corpo, come un nuovo sistema di parata e contrattacco) e gadget ingegnosi come ologranate che distraggono i nemici con proiezioni illusorie e boomerang ematici utilissimi contro le Creature Arenate. Questa enfasi sull'azione, se da un lato rende il gioco più accessibile e “divertente” in senso tradizionale, dall'altro solleva interrogativi sulla sua identità, come verrà approfondito.



Death Stranding 2 è divertente in tutte le sue componenti ludiche, eccellendo nella gestione del terreno, dei veicoli (ora più maneggevoli e con nuove capacità), dei combattimenti e, soprattutto, della cooperazione “asimmetrica” tra giocatori. La progressione beneficia ancora delle dinamiche multiplayer del primo, incentivando la collaborazione con i corrieri di altri mondi nel processo di antropizzazione e “dominazione” della natura. La moneta dei like, rimasta pura e slegata dalla progressione diretta (che introduce un apprezzato skill tree apocrifo che permette di personalizzare le abilità di Sam in base allo stile di gioco), continua a fungere da “indicatore di altruismo”, mantenendo intatta la sua purezza e il barlume di connessione umana che il primo gioco celebrava. Questo sistema, un pilastro dell'esperienza originale, continua a funzionare egregiamente, creando un senso di comunità e di aiuto reciproco che è raro nel panorama videoludico, un vero e proprio “social network” dell'altruismo.
Trama



Il vero dramma di Death Stranding 2 risiede nella sua narrativa, che rappresenta integralmente il punto più basso – e con notevole distacco – della carriera di Hideo Kojima come autore a tutto tondo. Il sequel, pur riprendendo il filo narrativo del primo, sembra non avere assolutamente nulla di significativo da dire. La scrittura è debole, a tratti malissimo, e riesce nell'impensabile impresa di depotenziare la resa di personaggi meravigliosi già ampiamente inseriti nel tessuto narrativo della serie.



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Sam



Il trattamento riservato a Sam è emblematico: il corriere leggendario si trasforma qui in un personaggio inerte, quasi un guscio vuoto, incapace di dimostrare emozioni o di reagire in modo credibile agli eventi che lo travolgono (e non esiste giustificazione narrativa che tenga in questo caso, poiché l'apatia di Sam in DS1 era un punto di partenza per la sua crescita, qui è un punto di arrivo inspiegabile). È come se la sua aptofobia fosse tornata, ma non come un conflitto da superare, bensì come una condizione statica e priva di sviluppo, rendendo il protagonista un mero veicolo per gli eventi, anziché un agente attivo della storia. La sua evoluzione dal primo capitolo, che lo aveva visto aprirsi al mondo e alle connessioni umane, sembra essere stata completamente azzerata, in un regresso inspiegabile che mina la coerenza del personaggio.



Da un lato vi è il fatto che Kojima si autocita di continuo, prendendo da Metal Gear una quantità spropositata di concetti, di ammiccamenti e di frasi di cui vuole comprensibilmente riappropriarsi senza che però queste vadano in alcun modo oltre la loro natura di autocitazioni. Tarman che parla di “Phantom Pain”, Neil con la bandana da Solid Snake, l'equipaggio della DHV Magellan che scimmiottare un po' la Cobra Unit di The Boss e un po' la FoxHound. Questo approccio sarebbe accettabile se servisse a generare significato nell'opera, a creare un dialogo intertextuale che arricchisca l'esperienza del giocatore, ma in Death Stranding 2 non succede praticamente mai a livello tematico e narrativo. Le citazioni diventano mero esercizio di stile, prive del peso psicologico, del commento sociale o della risonanza emotiva che le rendeva significative altrove. Sono gusci vuoti di un passato glorioso, incapaci di evocare la stessa profondità o di aggiungere strati di significato al presente, riducendosi a semplici easter egg per i fan più accaniti, anziché elementi narrativi funzionali. Questa tendenza all'auto-referenzialità, se non supportata da un contesto significativo, finisce per appesantire la narrazione e alienare chi cerca una storia originale.



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Higgs



Hideo Kojima è stato duramente criticato nel corso della sua carriera a causa della sua verbosità e della prolissità dei filmati presenti nei suoi giochi (si parla, dopotutto, di una persona che detiene ancora il Guinness World Record per la cinematica più lunga della storia del medium), e negli anni ha cercato in qualche modo una strada per sopperire a questa sua “mancanza” (che, per molti, non è mai stata un difetto e che anzi ha contribuito alla costituzione della sua cifra stilistica). Si è passati dalle cutscene alle audiocassette di Metal Gear Solid 5, per poi sconfinare nel log testuale di Death Stranding in cui ha riversato tutte quelle informazioni irrinunciabili legate al world building e allo sviluppo di certi aspetti dei personaggi. Qui, però, ciò che si presenta stordisce come mai prima d'ora: Death Stranding 2 si rifiuta quasi categoricamente di costruire filmati della durata di più di tre minuti, dando così spazio ad una scrittura superficiale e terribilmente deficitaria che depotenzia tutto quello che sembra voler raccontare. Ci sono dei momenti potenzialmente devastanti nel contrappunto della trama del gioco che vengono risolti con una rapidità destabilizzante, impedendo puntualmente ai personaggi di reagire a ciò che gli succede attorno e risolvendo alcuni dei punti cruciali con la più banale e deludente delle scrollate di spalle che non poteva né tantomeno doveva trovare spazio in un'opera tanto stratificata. Questa fretta narrativa impedisce ogni vera introspezione o sviluppo emotivo, lasciando i personaggi come mere pedine in un copione affrettato, privati della possibilità di elaborare il dolore, la perdita, o la gioia. Il risultato è un'esperienza che non riesce a coinvolgere emotivamente, dove i drammi personali e le rivelazioni cosmiche vengono trattati con la stessa leggerezza, privando il racconto di qualsiasi risonanza e lasciando il giocatore con un senso di incompiutezza.



In questo contesto, trovano spazio dei retcon narrativi che stravolgono nel giro di due o tre frasi la complessissima scrittura dei personaggi chiave del primo capitolo, spesso inseriti come forma di allungamento brodo del tutto inelegante per poi venire negati con la stessa rapidità incomprensibile. È un approccio che non solo non rispetta il lavoro precedente, ma tradisce la fiducia del giocatore che si era affezionato a quelle intricate trame e ai loro significati, minando le fondamenta stesse della lore costruita con tanta cura. L'assenza di una figura come Tomokazu Fukushima, storico scrittore della Metal Gear Saga il cui potere più grande è sempre stato quello di saper dire di no a Kojima e di tenerlo sui binari senza far deragliare disastrosamente il convoglio, si avverte come un vuoto nel tessuto narrativo. La sua assenza si manifesta come una mancanza di contrappeso a una visione che, in questo caso, sembra non avere freni o auto-critica, portando a una narrazione che si auto-sabota e perde la sua direzione.



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I combattimenti con i briganti ora sono più interessanti che mai



Per gran parte dell'esperienza, questa impostazione priva attivamente il giocatore delle motivazioni narrative per proseguire. La richiesta di riconnettere l'Australia viene eseguita coprendosi gli occhi e le orecchie di fronte alle infinite storture di una scrittura che ha trattato la stragrande maggioranza dei personaggi introdotti in questa seconda iterazione come figurine da appiccicare sullo schermo per ribadire al mondo quanto sia “fico” che Elle Fanning, George Miller e Shioli Kutsuna siano parte del cast di un videogioco firmato Hideo Kojima. Questa progressione avviene nonostante vi siano stati momenti in cui non è minimamente chiaro quale debba essere il ruolo del giocatore nella storia, ingannato dalla speranza che – prima o poi – tutto quanto sarebbe esploso in un finale roboante. La sensazione è quella di un viaggio senza meta emotiva, un mero susseguirsi di eventi senza un vero cuore pulsante, dove la grandezza tecnica contrasta con la vacuità del messaggio.



La triste verità, però, è che la conclusione di Death Stranding 2 si adagia sulle stesse identiche storture narrative sopportate per quaranta ore, introducendo però delle scene tremendamente cringe appiccicate un po' con lo sputo ad un impianto narrativo traballante, che nelle ultime ore introduce tematiche drammaticamente assenti nel resto del gioco che poi dismette con la stessa rapidità con cui le ha introdotte senza degnarsi di approfondirle nemmeno un po'. La sensazione che si ricava è che Kojima abbia “svisionato” certe scene e abbia fatto di tutto pur di inserirle in Death Stranding 2 senza curarsi né del tono né tantomeno della coerenza dell'opera. Il risultato è un'esperienza frammentata, dove la ricerca di un significato profondo si scontra con una superficialità disarmante, un'opera che si disintegra sotto il peso delle sue stesse ambizioni mal dirette.
Comparto Sonoro e la Presenza di Woodkid



Il comparto sonoro in Death Stranding 2 è un elemento di grande importanza, sebbene con sfumature diverse rispetto al suo predecessore. Il design audio ambientale continua a essere di altissimo livello, con effetti sonori che contribuiscono in modo significativo all'immersione nel mondo di gioco. Il fruscio del vento tra le rocce, lo scricchiolio della neve sotto i piedi, il suono distante di un BT o di un brigante, sono tutti elementi che creano un'atmosfera palpabile e spesso inquietante. La precisione del posizionamento sonoro è fondamentale per l'orientamento e per la percezione del pericolo, specialmente nelle sezioni stealth o in quelle in cui la visibilità è ridotta.



A contribuire alla colonna sonora, torna anche Ludvig Forssell, compositore già acclamato per il suo lavoro nel primo capitolo. Le sue composizioni continuano a regalare brani unici, dal carattere forte e originale, capaci di evocare atmosfere dense e complesse, che spaziano dalla tensione all'epica, dalla malinconia alla speranza. La sua capacità di creare paesaggi sonori distintivi è ancora evidente, e le sue nuove creazioni si inseriscono con coerenza nel peculiare universo di Death Stranding.



In questo sequel, si assiste anche al gradito ritorno di alcune tracce dal primo capitolo, che regalano momenti forti permeati di ricordi del viaggio in America con Lou. Tra le tante, spicca “Asylums for the Feeling” del duo Silent Poets. Questi brani, già iconici, evocano una nostalgia potente, richiamando alla mente le emozioni e le sfide affrontate nel primo capitolo. Ci si chiede, tuttavia, se questa presenza, seppur gradita e capace di toccare corde emotive profonde, non sia anche un sintomo di una mancanza autoriale. Il riutilizzo di temi musicali così fortemente associati al predecessore potrebbe essere interpretato come una difficoltà nel creare un'identità sonora completamente nuova e altrettanto incisiva per questo sequel, o come un tentativo di ancorarsi a una formula di successo per compensare altre carenze.



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Woodkid – fonte Kojima Production



Tuttavia, è nella colonna sonora e nella presenza di Woodkid che si percepiscono le differenze più marcate e le innovazioni più interessanti. Il primo Death Stranding era caratterizzato da un utilizzo magistrale di brani di artisti come Low Roar e Chvrches, che si fondevano perfettamente con i momenti di contemplazione e scoperta. La musica emergeva in modo organico, spesso dopo aver superato un ostacolo o raggiunto un panorama mozzafiato, amplificando l'emozione e il senso di solitudine e speranza. Era un accompagnamento discreto ma potente, che elevava l'esperienza a un livello quasi spirituale.



In Death Stranding 2, la presenza di Woodkid è prominente, con brani che permeano l'esperienza di gioco in modo dinamico. Le sue composizioni sono indubbiamente evocative e ricche di atmosfera, ma la loro integrazione nel tessuto ludico e narrativo appare meno organica e, a tratti, forzata. Mentre le tracce di Woodkid sono potenti e riconoscibili, la loro frequenza e il loro posizionamento sembrano talvolta interrompere il flusso narrativo o emotivo, anziché esaltarlo. Laddove le canzoni del primo DS si sentivano come una ricompensa per la fatica del viaggio, un momento di respiro e riflessione, qui la musica di Woodkid, pur di qualità eccelsa, tende a essere più invasiva, quasi a voler sottolineare a tutti i costi un'emozione che la narrazione non riesce a veicolare autonomamente.



Un aspetto particolarmente innovativo, e dimostrato dallo stesso Kojima tramite un video esplicativo, è come i brani musicali composti da Woodkid si trasformino a seconda del percorso intrapreso dal giocatore. Se il personaggio si trova in cima a una collina, la canzone è ricca e ritmata, con tutti gli strumenti in evidenza. Quando si devia dal tracciato principale, la musica si attenua, lasciando spazio a un arrangiamento più delicato con pianoforte e archi, quasi a riflettere un momento di incertezza o di esplorazione solitaria. Correndo, viene introdotta la batteria, aggiungendo un senso di urgenza e dinamismo. “È la stessa canzone”, ha spiegato Kojima, “ma cambia per riflettere l'umore e le scelte del giocatore”. Questa scelta punta, quindi, a rafforzare l'immedesimazione, avvicinandosi allo stato d'animo di ogni utente e creando un legame più profondo tra l'azione di gioco e la risposta emotiva del comparto sonoro. È un'implementazione tecnicamente brillante e concettualmente affascinante, che dimostra una ricerca continua nell'interazione tra musica e gameplay.



Tuttavia, anche questa innovazione si lega al problema più ampio della trama: se la storia non riesce a creare un legame emotivo profondo con i personaggi o con gli eventi, anche la musica più suggestiva e tecnicamente avanzata rischia di cadere nel vuoto. Le canzoni di Woodkid, con la loro drammaticità e il loro stile distintivo, sembrano a volte tentare di riempire un vuoto emotivo lasciato da una sceneggiatura carente, anziché arricchire un'esperienza già solida. Il risultato è che, pur apprezzando la qualità artistica delle singole tracce e l'ingegneria dietro la loro dinamicità, la loro funzione all'interno del gioco appare più simile a quella di un'aggiunta di prestigio, un “cameo sonoro”, piuttosto che un elemento intrinsecamente legato all'anima dell'opera, come avveniva con Low Roar nel primo capitolo. La musica, in questo contesto, diventa un altro strumento per “fare spettacolo”, piuttosto che un veicolo per l'introspezione o la connessione profonda, una dimostrazione di virtuosismo tecnico che non sempre si traduce in un impatto emotivo proporzionato.
Corda o Bastone?



Hideo Kojima ha abituato il pubblico a confrontarsi con elementi bizzarri e folli, sempre funzionali a un disegno più grande, a un significato nascosto o a un commento sociale. Erano elementi integrati in un contesto scrittorio solido e potentissimo. Qui, purtroppo, tutto questo non succede mai, al punto che specifiche scene risultano così brutte e gratuite da generare un sincero imbarazzo. Si è di fronte a quella che per molti potrebbe essere la delusione peggiore di tutta l'ultima generazione di console, nonostante si tratti del videogioco tecnologicamente più avanzato visto ad oggi su console, migliorato in maniera davvero impressionante in quasi ogni sua componente ludica.



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Death Stranding 2 aveva promesso tantissimo, soprattutto alla luce del convoluto quanto assolutamente geniale intreccio tra narrativa e gameplay imbastito in Death Stranding, che qui viene depotenziato in maniera a tratti inconcepibile. Le promesse sono rimaste confinate nei trailer di un gioco che narrativamente non riesce quasi mai a trasformarsi in una storia coerente. Risulta più un collage di immagini un po' matte che non dialogano in alcun modo tra loro e che, soprattutto, sono del tutto incapaci di trasformarsi nell'ossatura di un'opera che abbia davvero voglia di raccontare qualcosa che non sia una sbrodolata narcisistica di un autore che ha cominciato ad autocitarsi a ripetizione nel tentativo di far vedere a tutti che lui con Hollywood vuole avere un rapporto privilegiato. Non si trova alcuna spiegazione che possa giustificare questa pericolosa involuzione se non che la motivazione profonda che ha portato a Death Stranding 2 sia stata solamente quella di mettere in fila cameo di personaggi famosi per farsi belli agli occhi di uno star system sempre più ingombrante nell'economia dei tempi di Kojima. Il significato e l'introspezione sembrano sacrificati sull'altare della visibilità, trasformando un potenziale capolavoro in un mero esercizio di stile e marketing.



La questione fondamentale che emerge è se Death Stranding 2: On The Beach possa essere definito un vero e proprio sequel o se, piuttosto, rappresenti una sorta di “Metal Gear Stranding”. Mentre il primo capitolo si distingueva per la sua unicità nel genere, fondando le sue meccaniche su concetti di connessione e isolamento, questo seguito sembra aver abbracciato in maniera più marcata elementi tipici dei precedenti lavori di Kojima, in particolare gli stealth games shooter della serie Metal Gear Solid. Questa virata verso un gameplay più action, sebbene raffinato e divertente, solleva interrogativi sulla coerenza dell'identità del franchise. Se da un lato l'introduzione di un arsenale più vario e di un level design più complesso per gli scontri è indubbiamente un miglioramento ludico, dall'altro rischia di diluire l'essenza contemplativa e unica che ha definito il primo Death Stranding. Il titolo si trova così in una posizione ambigua, un ibrido che, pur eccellendo in molteplici aspetti tecnici e di gameplay, fatica a definire la propria anima, oscillando tra la continuazione di un'opera originale e l'eco di un passato glorioso ma differente. Questo dualismo, tra l'eccellenza ludica e la debolezza narrativa, crea una dissonanza che impedisce al gioco di raggiungere le vette artistiche del suo predecessore.



Le conclusioni che si traggono dopo oltre quaranta ore di DS2 sono due convinzioni diametralmente opposte. La prima è che, oggi, Kojima ha dimostrato che la sua ricerca ossessiva di un contatto con lo star system lo ha avvicinato al sistema-cinema di Hollywood e non alla settima arte. Death Stranding 2 rappresenta uno scivolone artistico che rischia di minare seriamente le sue velleità da regista, vista la gestione a tratti inconcepibile delle parti filmiche del gioco (per scrittura, ritmo e direzione delle cutscene). È come se la sua ambizione cinematografica, anziché elevare il medium videoludico, lo avesse appesantito, privandolo della sua specificità e della sua anima interattiva. L'altra, piaccia o meno a Hideo Kojima, è che è ancora oggi un game designer eccezionale, capace come quasi nessuno di costruire sistemi di gioco rivoluzionari e spaventosamente profondi, oltre che un maestro nell'estrarre le potenzialità tecnologiche del medium anche quando questo sembra arenarsi sui propri limiti. Si spera con tutto il cuore che se ne renda conto e che accetti il suo ruolo di guida di un medium che ha ancora tremendamente bisogno di creativi così dannatamente abili perché, al di là dei suoi difetti a tratti mortificanti, Death Stranding 2 è ancora un videogioco meccanicamente rivoluzionario e rifinito quasi alla perfezione nelle sue parti più esplicitamente ludiche.



Death Stranding 2: On The Beach è la corda tesa da Hideo Kojima per cercare di connettersi ad un mondo dello spettacolo fatto di celebrità e di collaborazioni infinite con brand di successo, leggi l'anteprima del gioco, che, però, si è trasformata nel bastone utilizzato involontariamente contro la propria visione artistica di un medium che ha contribuito a far maturare con una velocità impressionante e spesso ingiustamente sottovalutata. È un monito, un'eco amaro di ciò che si perde quando l'arte cede il passo al prodotto, quando la profondità viene sacrificata per la visibilità.



Tutto questo genera una grande inquietudine al pensiero dei prossimi progetti targati Kojima Productions (si ricordi che ha definito OD il primogenito di qualcosa che intende come un nuovo medium), ma si spera che chi di dovere si renda conto che la strada giusta da seguire sia, purtroppo, un'altra. La strada dell'anima, della connessione autentica, della narrazione che scava dentro e non si limita a brillare in superficie.
PRO



  • Comparto tecnico e grafico di altissimo livello.
  • Gameplay di traversal splendidamente rifinito e migliorato.
  • UI e quality of life profondamente riviste e ottimizzate.
  • Sistema di combattimento più action, vario e divertente, con level design degli avamposti migliorato.
  • Introduzione di gadget ingegnosi e utili.
  • Cooperazione “asimmetrica” tra giocatori ancora più efficace e gratificante.
  • Moneta dei “like” che mantiene la sua purezza come indicatore di altruismo.
  • Sound design ambientale eccellente.
  • Composizioni uniche e originali di Ludvig Forssell.
  • Innovativa implementazione dinamica della musica di Woodkid, che si adatta alle azioni del giocatore.

Contro



  • Narrativa debole, superficiale e a tratti mal scritta, il punto più basso della carriera di Kojima.
  • Depotenziamento e regressione del personaggio di Sam, privo di sviluppo emotivo.
  • Autocitazioni da Metal Gear prive di significato contestuale, mero esercizio di stile.
  • Fretta narrativa e cutscene troppo brevi che impediscono sviluppo e introspezione.
  • Retcon narrativi che stravolgono la scrittura dei personaggi chiave del primo capitolo.
  • Presenza di scene “cringe” e gratuite che generano imbarazzo.
  • Sensazione di un gioco costruito più per i cameo di celebrità che per necessità artistiche.
  • Perdita dell'anima e della profondità tematica che caratterizzavano il predecessore.
  • Ambiguità sull'identità del franchise: più “Metal Gear Stranding” che un vero sequel.
  • Integrazione della colonna sonora di Woodkid, pur innovativa, a volte meno organica rispetto al predecessore.
  • Il riutilizzo di tracce iconiche del primo capitolo potrebbe essere interpretato come sintomo di una mancanza autoriale.

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2 luglio alle 01:40

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