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Unexplored - recensione

Tra tutti i generi presenti sul mercato il roguelike ha decisamente qualcosa di magico, soprattutto per i giocatori che hanno qualche primavera in più alle spalle. Le dinamiche utilizzate in questi titoli fanno infatti parte di quel DNA originario che i videogiochi si portano dietro dai tempi di Pong: ancora una partita (e una moneta) e vediamo se arriviamo un po' più in là. Ciò che oggi chiamiamo permadeath e, semplicemente, alta difficoltà, era, all'inizio dei tempi, la normalità. Salvataggi in-game non ne esistevano e la difficoltà era anch'essa figlia di quel brodo primordiale da cui tutto ebbe inizio, ovvero la 'sala giochi' e il suo modello di business.



Gli stessi 'high scores' (i punteggi migliori) rimanevano in balìa di eventuali spegnimenti della macchina o, a casa, era semplicemente questione di premere il pulsante off sulla console e tutto scompariva. Nei libretti di istruzioni le ultime pagine erano spesso piene di linee e spazi bianchi in cui segnare i punteggi migliori e i nomi dei prodi giocatori che li avevano conquistati. In queste radici risiede, probabilmente, la ragione del fascino (e quindi del successo) del genere.



Ma creare un roguelike oggi non è impresa facile perché alle caratteristiche antiche bisogna riuscire ad aggiungere gli standard qualitativi a cui si sono abituati i giocatori moderni, senza snaturare il genere ma anche senza annoiare il giocatore con la ripetitività di cui soffrivano, fisiologicamente, i primi videogiochi. Unexplored sembra aver fatto sua proprio questa missione e offre agli appassionati del genere un'esperienza di dungeon crawling basata su un'ottima generazione casuale dei livelli affiancata da meccaniche di gameplay semplici ma in grado di generare situazioni divertenti e sempre fresche.

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7 luglio 2017 alle 11:10