Qual è la ricetta per l'open world perfetto? - editoriale
Il fascino dei mondi aperti esercita un'attrazione particolare sulla categoria dei videogiocatori, da sempre alla ricerca di orizzonti sconfinati e promesse di libertà. Quella dell'open world è una filosofia di game design intrigante al punto da emergere fin dai primi anni '80 e capace di crescere in maniera incontrollabile nel corso dei decenni successivi, adattandosi ai trend del mercato ed entrando in simbiosi tanto con i progetti di tie-in quanto con i simulatori immersivi più hardcore. Al culmine del processo evolutivo, i consulenti finanziari di colossi come Wedbush sono arrivati ad affermare che, nel mercato contemporaneo, il successo di un'esperienza in giocatore singolo sia strettamente legato alla nuda dicitura open world, ormai un selling point a tutti gli effetti. Quanti franchise immortali hanno guardato con invidia il successo dei competitor, arrivando a mutare la propria anima per combattere ad armi pari nell'ecosistema dell'ottava generazione?
Del resto, le potenzialità della proposta sono evidenti: quanti fanatici dell'universo creato da Tolkien, quanti supporter della galassia di George Lucas e quanti appassionati di role play non sognavano altro che potersi muovere liberamente all'interno di quelle realtà, vivendo da protagonisti l'ebbrezza di una costante scoperta? Non è un caso che tra i mondi aperti embrionali figurino prodotti come The Hobbit (1982) e il primissimo Elite (1984), precursori della traduzione delle avventure testuali in immagini interattive, pionieri di un'epoca culminata negli overworld di opere come Ultima e nei quadri di The Legend of Zelda. Quest'ultimo titolo affiancava per primo il gameplay non lineare alla struttura esplorativa, gettando inconsapevolmente le basi di una crescita tanto rigogliosa quanto ricca di twist inaspettati.
Perché, proprio come un rampicante, questa filosofia di game design ha dimostrato di avere le carte in regola per adattarsi a ogni superficie: che si trattasse di un'applicazione open map in stile metroidvania, di una struttura open level come quella lanciata da Super Mario 64 o ancora di una costruzione open city simile a quella di Shenmue, l'integrazione di un modello che premiasse la libertà del giocatore ha vissuto una crescita continua ed estremamente ramificata. All'epoca delle riviste di settore, era spesso sufficiente un semplicissimo screenshot per convincere gli acquirenti: al crescere della profondità di campo, corrispondeva un sostanziale incremento dell'interesse tanto dei lettori quanto degli addetti ai lavori. Ma cosa succede in un mercato nel quale una tale libertà diventa la normalità? Possibile che ci stiamo avvicinando al punto di saturazione?
