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Outside the Wire - recensione

Siamo nel 2036, in una zona di guerra che si è creata in imprecisati paesi dell'Est lungo il confine russo (c'è ancora di mezzo l'Ucraina). Non stupisce l'ambientazione nei Balcani e zone limitrofe al confine russo, in quanto area storicamente infida, dove fra ex militari e trafficanti di ogni genere circolano ancora un sacco di armi nucleari.



Mentre gli eserciti e le varie fazioni si scannano a vicenda, la popolazione civile subisce la nota sorte del vaso di coccio. A "fare da cuscinetto", per scopi umanitari, ci sono corpi speciali americani (e già qui viene un po' da ridere, tristemente). L'Esercito, a supporto dei soldati, impiega sul campo dei robot, macchine munite di I.A. elementare, semplici armi anche se potentissime al servizio degli umani, vulnerabili e sacrificabili.



Intanto nel deserto del Nevada, dal solito posteggio di anonimi container, i piloti dei droni dall'alto dei cieli fanno il danno maggiore senza sporcarsi le mani. Uno di loro, l'arrogante Tenente Harp, con un carnet di stragi da medaglia d'oro, vittima del complesso di Dio, crede di poter decidere da solo chi deve morire, senza conteggiare i danni collaterali, per lui serenamente trascurabili. Ma esagera e invece che in corte marziale, finisce in quella zona di guerra, a disposizione di Leo, un misterioso, temuto super-soldato.



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16 gennaio 2021 alle 11:10