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Il sogno di Cthulhu: mito e cultura pop da Lovecraft a oggi – Parte 2

Ci sono autori che costruiscono mondi e autori che costruiscono idee. Lovecraft ha fatto entrambe le cose, ma in un modo peculiare che nessuno dei suoi contemporanei ha realmente compreso. Ha costruito un universo narrativo che funziona come un dispositivo, un prisma capace di rifrangere il nostro rapporto con l'ignoto. Nella Parte I abbiamo attraversato la sua biografia, la sua filosofia dell'indifferenza, la sua geografia immaginaria fatta di soglie e oscurità, e soprattutto abbiamo visto come la sua narrativa non sia un semplice repertorio di mostri ma una forma di conoscenza.



Ora il viaggio cambia direzione. Non più verso l'origine, ma verso ciò che viene dopo. Il punto di partenza è una domanda che potrebbe sembrare ingenua ma non lo è affatto: come ha fatto un autore marginale, povero e spesso pubblicato a pochi dollari a pagina, a diventare una delle colonne portanti dell'immaginario moderno? È una storia che non riguarda solo il successo postumo, ma la metamorfosi di un pensiero in un linguaggio, di un linguaggio in un'estetica, di un'estetica in un codice culturale condiviso.



Parlare di eredità culturale, nel caso di Lovecraft, significa parlare di un contagio. Significa osservare un sistema di idee che si diffonde senza proclamarsi, che si infiltra nelle opere di altri autori, nei film, nei videogiochi, nei fumetti, nei giochi di ruolo, nella musica e perfino nella cultura pop più leggera come meme e citazioni ironiche. Il Mito di Cthulhu non sopravvive perché viene ripetuto, ma perché viene reimmaginato. Lovecraft non ha semplicemente fondato un canone. Ha fondato un lessico. Un modo di nominare ciò che non ha nome.



Questa Parte II ricostruisce quel percorso, non come un catalogo sterile di influenze ma come una mappa viva. Ogni sezione è una deriva attraverso le forme in cui il sogno di Cthulhu ha continuato a respirare. E come ogni sogno, non appartiene più solo a chi l'ha immaginato per primo.



Lovecraft dopo Lovecraft: il mito che non si spegne



Lovecraft muore nel 1937, convinto di non aver lasciato nulla di significativo. La sua percezione del proprio valore era minata dalla povertà, dalla malattia e dalla convinzione che il pubblico della narrativa popolare non potesse comprendere la profondità delle sue ossessioni. Eppure, proprio nei suoi anni più difficili, qualcosa stava già germogliando. Attorno a lui era nato un gruppo di scrittori che non rappresentavano una semplice cerchia di amici ma una vera e propria officina di immaginazione condivisa.



Questo collettivo, che passerà alla storia come Circolo di Lovecraft, non fu mai un gruppo organizzato e uniforme. Era piuttosto un sistema di scambio continuo, fatto di lettere, consigli, revisioni, incoraggiamenti e di un dialogo fitto che permetteva alle idee di rimbalzare, trasformarsi e sopravvivere. Autori come Clark Ashton Smith, Robert E. Howard, Frank Belknap Long e altri ancora non solo leggevano Lovecraft. Lo sentivano come un punto di riferimento, un nodo centrale attorno al quale organizzare un immaginario comune. Il risultato non fu un corpo di testi coerenti e ordinati, ma una serie di ramificazioni che contribuirono a dare continuità al suo universo.



La sopravvivenza vera e propria del Mito, però, si deve a due figure e a un progetto editoriale che cambierà la storia della letteratura fantastica: August Derleth e Donald Wandrei, fondatori della casa editrice Arkham House. Per anni Derleth aveva assorbito l'estetica di Lovecraft, imitandone stile e ambientazioni. Dopo la sua morte, decise che quel mondo non poteva scomparire. Raccolse manoscritti, revisionò testi, salvò racconti destinati all'oblio e soprattutto diede al Mito un impianto sistematico. Fu lui a organizzare le divinità, a definire le gerarchie, a dare un ordine cosmologico che Lovecraft non aveva mai voluto esplicitare.



Questo gesto è controverso, perché Lovecraft non pensava il suo Mito come un pantheon rigido, ma come un insieme di presenze che rispondevano più alla logica del caos che a quella della mitologia classica. Derleth, invece, interpretò il Mito attraverso una lente quasi manichea, attribuendo alle entità tratti più simili a quelle delle mitologie umane. Una distorsione, certamente, ma anche una forma di salvataggio. Senza di lui, molte opere di Lovecraft avrebbero rischiato di restare sepolte.



Nel secondo dopoguerra, quando la narrativa di intrattenimento iniziò a espandersi e a diversificarsi, i semi piantati da Lovecraft germogliarono in autori che non ebbero bisogno di replicare pedissequamente il suo stile. Il Mito di Cthulhu divenne un linguaggio narrativo, non più un catalogo di creature. Colin Wilson, Ramsey Campbell, Fritz Leiber e decine di altri autori contribuirono a questo processo. Alcuni lo reinterpretarono in chiave esistenziale, altri ne fecero una metafora politica, altri ancora lo reimmaginarono come un universo espandibile, capace di accogliere nuove divinità, nuove geografie e nuove filosofie.



Questo fenomeno non è comune nella storia della letteratura. Richiede tre cose: un mondo aperto, un linguaggio flessibile e un nucleo concettuale che non si esaurisce in una formula. Lovecraft possedeva tutte e tre. Il suo orrore cosmico non apparteneva al suo tempo, ma a qualunque tempo in cui l'uomo continui a chiedersi quale sia il proprio posto nell'universo.



Il linguaggio che diventa immaginario



Uno dei tratti più sorprendenti dell'eredità di Lovecraft è che non ha lasciato soltanto personaggi o atmosfere, ma un linguaggio riconoscibile. Ci sono parole che prima di lui esistevano come semplici definizioni e che dopo di lui sono diventate simboli. Altre, invece, non esistevano affatto. Ne sono esempio termini come innominabile, indicibile, blasfemo, usati in una maniera che trascende il loro senso comune. E poi ovviamente ci sono i vocaboli inventati, nomi che non descrivono nulla ma evocano tutto: R'lyeh, Yuggoth, Nyarlathotep. Sono suoni più che parole. Vibrazioni di un immaginario che sta per manifestarsi.



La forza di questi termini non deriva dal loro significato, ma dal loro funzionamento nel contesto narrativo. In Lovecraft, ogni parola è un gradino. Non serve a spiegare, serve a suggerire. Il suo lessico costruisce una distanza. Un mondo che non si mostra direttamente e che proprio per questo si fa più vasto. Questa strategia linguistica ha avuto un'influenza immensa sulla cultura contemporanea, ben oltre gli ambiti in cui ci si aspetterebbe di trovarla.



Oggi parliamo di estetica lovecraftiana senza bisogno di spiegare a cosa ci riferiamo. Basta citare l'ignoto, l'abisso, il senso di insignificanza. Basta evocare un'entità che non si vede mai del tutto, o un frammento di conoscenza che non può essere contenuto dalla mente umana. Lovecraft ha trasformato la lingua in un codice iconografico, e questo codice è stato adottato da narratori, sceneggiatori, sviluppatori di videogiochi e persino artisti visivi.



L'aggettivo lovecraftiano è diventato un contenitore semantico che ingloba concetti molto diversi tra loro. Può significare inquietudine metafisica, oppure un mostro tentacolare. Può indicare un'architettura impossibile, oppure la scoperta di un segreto che non avrebbe dovuto essere scoperto. È un termine capace di attraversare i generi e persino le culture. In Giappone, ad esempio, l'influenza di Lovecraft ha generato ibridazioni come quelle che si trovano nelle opere di Junji Ito. In Occidente ha contaminato la narrativa fantastica, l'horror psicologico, il cinema sperimentale, i videogiochi e la musica ambient.



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Ma il punto centrale non è la diffusione. È la metamorfosi. Il linguaggio di Lovecraft non è stato adottato come un modello, ma come un principio. Non perché fosse utile a descrivere i mostri, ma perché era utile a definire l'indefinibile. La parola, in Lovecraft, è sempre un tentativo fallito. Una protesi imperfetta che cerca di dire ciò che la mente non sopporta. Ed è proprio in questa frattura che il suo linguaggio diventa moderno. Non rappresenta, ma allude. Non chiude, ma apre.



Per questo motivo la sua eredità linguistica è diventata estetica, poi culturale, poi memetica. Una catena di trasformazioni che lo ha reso non solo un autore, ma una matrice. Il suo linguaggio è un filtro che molti artisti hanno scelto di sovrapporre al mondo per vedere cosa succede quando si guarda l'universo attraverso l'orrore cosmico.



Lovecraft al cinema: visioni dall'abisso



Il cinema è il luogo in cui l'immaginario prende corpo, ma è anche il luogo in cui l'indicibile rischia di dissolversi in una forma troppo precisa. Portare Lovecraft sullo schermo è una sfida che sfiora il paradosso, perché la sua poetica si regge sulla non rappresentazione, sul margine, sul vuoto che la mente riempie con qualcosa che la lingua non può contenere. Eppure, proprio questa difficoltà ha trasformato l'orrore cosmico in una prova di forza estetica, che registi e sceneggiatori hanno affrontato con strategie diverse, talvolta fedeli, talvolta libere, sempre inevitabilmente parziali.



Gli adattamenti diretti sono rari e spesso imperfetti. Opere come Il seme di Dunwich, La cosa su Innsmouth e soprattutto la serie di film collegati a Re-Animator cercano di tradurre l'universo lovecraftiano attraverso i codici dell'horror più esplicito. Sono film che puntano su effetti, anatomie distorte, resurrezioni impossibili. Eppure, anche quando la trama si allontana dai testi, resta percepibile una struttura nascosta: quella tensione tra ciò che è visibile e ciò che appartiene a un altrove che non si lascia afferrare. Non sempre questi film possiedono la profondità filosofica dell'originale, ma conservano una scintilla del suo intento, una dimensione di inquietudine che non dipende dalla creatura ma dal principio che la sostiene.



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Molto più complesso è il lavoro dei registi che non hanno adattato Lovecraft in senso stretto, ma lo hanno incorporato come un codice genetico nelle loro opere. Tra tutti spicca John Carpenter, che con La cosa e Il seme della follia ha restituito l'essenza del pensiero lovecraftiano senza mai nominarlo esplicitamente. In questi film l'orrore è un processo, non un'apparizione. È la perdita della forma, dell'identità, della continuità logica del reale. Carpenter non imita Lovecraft, lo prosegue. Porta al cinema la stessa intuizione: l'idea che la verità non sia ciò che illumina, ma ciò che acceca.



Un altro interprete fondamentale è Guillermo del Toro. In opere come Il labirinto del fauno o La forma dell'acqua, l'elemento sovrannaturale non è un intruso ma una componente naturale del mondo. È un'estensione del reale che non chiede di essere spiegata. Pur non essendo adattamenti, questi film incarnano lo stesso principio che guida le storie lovecraftiane: la coesistenza tra la quotidianità e una dimensione che eccede le nostre categorie. In Del Toro l'orrore non è sempre negativo. È una possibilità, una rivelazione, un visitatore che turba l'ordine umano perché lo supera.



Un altro esempio prezioso è Annientamento di Alex Garland. Il film esplora l'idea di un fenomeno che non può essere compreso attraverso gli strumenti della mente umana. Non c'è un nemico, non c'è una creatura definita. C'è una mutazione continua, una simmetria inquietante, una geografia che non risponde più alle regole della fisica. È un film che guarda all'indicibile, non come limite tecnico ma come tema ontologico. Una declinazione perfetta dello spirito lovecraftiano, in cui l'orrore nasce dal riconoscimento di un ordine più vasto, non dalla sua violazione.



Il cinema, dunque, non può riprodurre Lovecraft alla lettera, ma può farne risuonare le forme. Può mostrare ciò che nei suoi testi resta sospeso, ma soprattutto può rendere visibile la dissoluzione del visibile. Questa è forse la sua eredità più fertile. Non i mostri, ma la perdita di familiarità del reale. Non l'apocalisse, ma la rivelazione che precede ogni apocalisse.



Lovecraft nei fumetti e nella letteratura successiva



Se il cinema ha dovuto affrontare il problema della rappresentazione, il fumetto e la narrativa successiva hanno invece trovato in Lovecraft una miniera quasi inesauribile di forme, simboli e dinamiche. La pagina, rispetto allo schermo, permette una maggiore ambiguità e una costruzione più graduale dell'atmosfera. Non costringe a mostrare ciò che non può essere mostrato, ma consente di suggerirlo con linee, ombre, ellissi. Questa libertà ha reso il fumetto uno dei territori più fertili per la crescita e la mutazione del Mito.



La prima grande eredità è quella lasciata da August Derleth, che non si è limitato a preservare l'opera di Lovecraft ma l'ha reinterpretata con una struttura quasi teologica. Derleth ha dato al Mito una forma più rigida e sistematica, introducendo dicotomie, forze contrapposte, genealogie di divinità che nella mente di Lovecraft erano molto più fluide e caotiche. Questa rilettura è controversa, perché rischia di tradire la natura caotica e indifferente del cosmo lovecraftiano. Tuttavia è stata decisiva per la diffusione del Mito. Ha fornito un lessico condiviso, un repertorio utilizzabile, una mappa su cui altri autori potevano muoversi.



Da questa base sono partite reinterpretazioni molto più radicali. La più importante è senza dubbio quella di Alan Moore. Con opere come Providence, Neonomicon e The Courtyard, Moore non si limita a citare Lovecraft. Lo attraversa, lo smonta, lo ricostruisce. In queste storie il Mito diventa un dispositivo narrativo che cattura il lettore in una spirale di specchi tra fiction e metanarrazione. Moore legge Lovecraft con lucidità critica, evidenziandone sia la potenza visionaria sia le ombre culturali. Il risultato è un universo in cui l'orrore cosmico non è solo un tema ma un metodo. È un modo di pensare il mondo, la pagina, la narrazione stessa.



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Un'altra figura chiave è Thomas Ligotti, spesso definito l'erede filosofico di Lovecraft. Non per affinità tematica, ma per la radicalità del suo pessimismo. Ligotti non riprende il Mito in senso letterale, non parla di divinità antiche o città sommerse. Riprende invece il nucleo concettuale del cosmicismo: la convinzione che la coscienza sia un errore evolutivo, un'aberrazione che permette all'uomo di percepire la propria inutilità. La sua narrativa è un incubo di lucidità, più psicologica che metafisica, ma perfettamente allineata allo spirito lovecraftiano.



Infine ci sono le reinterpretazioni contemporanee che affrontano il retaggio problematico di Lovecraft. Opere come Lovecraft Country ribaltano la prospettiva, utilizzando l'immaginario del Mito per denunciare e discutere le ideologie che hanno influenzato la sua visione del mondo. Qui il cosmicismo diventa un campo di battaglia culturale, uno spazio in cui la letteratura può interrogare tanto l'orrore cosmico quanto gli orrori sociali. È la prova che il Mito non è un monumento immobile, ma un organismo vivo, capace di entrare in dialogo con il presente.



Nel fumetto e nella letteratura moderna, Lovecraft non è soltanto un autore di riferimento. È un punto di partenza. Un prisma che deforma la luce. Una radice che alimenta visioni contraddittorie e complementari. Un sistema aperto, continuamente riscritto da chi decide di attraversarlo.



Lovecraft nei videogiochi e nei giochi di ruolo



Se c'è un luogo in cui il Mito di Cthulhu ha trovato una forma nuova e inattesa, quel luogo è il videogioco. Non perché i videogiochi imitino Lovecraft, ma perché riproducono la sua stessa dinamica fondamentale: la conoscenza come rischio, l'esplorazione come forma di condanna, la scoperta come perdita di stabilità mentale. Qui il lettore non è più spettatore, diventa testimone diretto. È una trasformazione radicale, che trasforma l'orrore cosmico da concetto narrativo a esperienza giocata.



Il primo vero punto di svolta è il gioco di ruolo da tavolo Il richiamo di Cthulhu, pubblicato negli anni Ottanta e destinato a diventare un classico assoluto. La sua innovazione è tanto semplice quanto devastante. Il sistema non premia la forza, ma punisce la conoscenza. Ogni indizio trovato consuma la sanità mentale dei personaggi, ogni passo avanti nella comprensione li avvicina al collasso. È l'unico gioco in cui vincere significa perdere, perché la vittoria è sempre un anticipo della catastrofe. È un'interpretazione fedelissima allo spirito di Lovecraft, che non vedeva nell'eroe un salvatore ma un tramite. Nel gioco di ruolo la narrativa non è decorazione, è meccanica pura.



Nei videogiochi, l'eredità di Lovecraft prende direzioni ancora più complesse. Titoli come Bloodborne non si limitano a evocare l'estetica dell'incubo, ma costruiscono un'intera mitologia basata sul concetto lovecraftiano più radicale: la verità come trauma. I Grandi Essere del gioco non sono mostri, sono concetti incarnati. Sono conoscenze superiori che l'uomo non può sopportare senza mutare. Ogni boss è una metafora, ogni trasformazione una forma di risveglio. Non esiste un racconto esplicito, ma un puzzle di simboli che il giocatore ricompone come farebbe un antiquario di Miskatonic di fronte a un manoscritto che non dovrebbe leggere.



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La stessa logica anima opere come Darkest Dungeon, dove ogni esplorazione è una discesa nell'incomprensibile. Qui la follia non è un rischio narrativo, è una statistica. Una risorsa che si consuma e che trasforma i personaggi. Il buio non è una semplice mancanza di luce, è una forza che altera il modo in cui il mondo risponde all'azione del giocatore. Anche questo è Lovecraft, ma filtrato attraverso la lente del gameplay. L'orrore non è più solo un effetto estetico, è una meccanica che invade ogni scelta.



Nel caso di Eternal Darkness, l'eredità è ancora più esplicita. La sanità mentale diventa un sistema che altera il mondo stesso. Le pareti si inclinano, le voci sussurrano, la telecamera tradisce il giocatore. È un'esperienza che ricostruisce l'instabilità percettiva del racconto lovecraftiano. Qui l'indicibile non è fuori, è nella frattura che si apre tra ciò che il giocatore vede e ciò che crede di vedere.



In altri casi l'eredità è più indiretta, ma altrettanto potente. Il mondo degli Xel'Naga nella saga di Starcraft ne è un esempio evidente. Non riprendono direttamente il Mito, ma ne incarnano l'archetipo. Sono creature antiche, enigmatiche, legate all'evoluzione delle specie e alle derive cosmiche. Rappresentano la stessa concezione del cosmo come teatro di forze smisurate, dove l'umanità è un accidente. È Lovecraft che si prolunga nel linguaggio della fantascienza, mostrando ancora una volta quanto il suo pensiero sia trasversale.



Opere come The Sinking City, Sunless Sea e l'universo narrativo di Fallen London mostrano un'altra forma di eredità. Qui l'orrore cosmico diventa urbanistica, atmosfera, struttura narrativa. Il mondo è labirinto, la città è una creatura che respira, l'acqua è un confine carico di promesse e minacce. Più che raccontare Lovecraft, questi giochi lo abitano. Costruiscono spazi che funzionano come i luoghi dei suoi racconti. Mappe dove l'ignoto non è un fuori, ma una proprietà interna del mondo.



Nel videogioco, insomma, Lovecraft trova la sua espressione più dinamica. Non perché venga imitato, ma perché la sua filosofia funziona come una meccanica, non solo come una narrativa. È questo che lo rende così adatto a un medium che vive di scelta, esplorazione e rischio. Il giocatore diventa lo studioso, l'investigatore, la vittima. Il suo destino è quello dei protagonisti lovecraftiani: cercare una verità che non può sopportare.



Lovecraft nella cultura visiva e nella musica



La cultura visiva ha adottato Lovecraft molto prima che ne diventasse consapevole. La sua estetica, fondata sull'indicibile, ha generato una serie di immagini che paradossalmente non esistono, ma che tutti riconoscono. Non c'è una descrizione precisa di Cthulhu nei testi, eppure il mondo intero sa come immaginarlo. È un paradosso che rivela la forza generativa del suo immaginario. Lovecraft non ha creato immagini. Ha creato un vuoto che altre immagini hanno riempito.



Nelle arti visive contemporanee, l'eredità lovecraftiana è ovunque. I mostri tentacolari, le architetture impossibili, gli orizzonti deformati, le città sommerse, le figure emerse da un abisso metafisico. Ma anche quando le forme non sono esplicitamente lovecraftiane, la logica lo è. L'idea che l'immagine non sia un oggetto da contemplare, ma una soglia da varcare. Pittori, illustratori, artisti digitali hanno fatto del Mito una grammatica. L'orrore cosmico è diventato una composizione, un equilibrio tra ciò che si intravede e ciò che si intuisce.



La musica ha compiuto un percorso simile. Le atmosfere dark ambient, doom metal o noise trovano in Lovecraft un lessico emotivo. Band come Metallica con brani ispirati a Cthulhu, o progetti come Nox Arcana ed Electric Wizard, costruiscono paesaggi sonori che non raccontano l'orrore, ma lo fanno respirare. L'assenza di struttura chiara, la ripetizione ossessiva, le sonorità profonde e dissonanti sono strumenti perfetti per evocare la sensazione di trovarsi davanti a qualcosa che non possiede una forma stabile.



Parallelamente, la cultura pop più leggera ha trasformato Lovecraft in un'icona. Le versioni parodiche di Cthulhu nei cartoni animati, i pupazzi, i peluche, le tazze, i meme, le citazioni ricorrenti in serie come South Park o Rick and Morty mostrano un altro volto dell'eredità lovecraftiana. Non è una banalizzazione. È una metamorfosi. Nel momento in cui un mito diventa ironico, significa che è diventato universale. Significa che ha smesso di appartenere solo all'horror ed è diventato un simbolo culturale, riconoscibile anche da chi non ha mai letto una riga dell'autore.



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Lovecraft è allo stesso tempo profondissimo e pop. È un autore di nicchia e un fenomeno globale. È un padre oscuro della cultura moderna e una mascotte tentacolare. Questa ambiguità, questa doppia vita, è la prova più forte della sua capacità di attraversare i generi, i linguaggi e le generazioni.



Il padre dell'immaginario moderno



A questo punto la domanda non è più come Lovecraft abbia influenzato la cultura moderna, ma in che misura ne sia diventato uno dei padri strutturali. Non di un singolo genere, non di una moda passeggera, ma di un modo di immaginare. L'orrore contemporaneo, la fantascienza, la narrativa weird, i videogiochi, il cinema e persino alcuni filoni della filosofia condividono una stessa intuizione: il mondo è più vasto della mente che lo osserva. Questa è l'eredità di Lovecraft. Non un immaginario, ma una prospettiva.



Nelle grandi saghe contemporanee, dai film alla televisione, il suo influsso è ormai parte dell'infrastruttura del racconto. L'idea della minaccia incommensurabile, della verità destabilizzante, dell'ignoto che non ha volto e non ha origine, è diventata una convenzione narrativa. Serie come Stranger Things, opere come Control, universi come quello di Alien portano dentro di sé tracce evidenti del suo pensiero. Non imitano Lovecraft. Ne utilizzano la lente. Guardano il mondo come lui ci ha insegnato a guardarlo: non dal centro, ma dal margine.



Lovecraft ha trasformato la paura in un problema filosofico, la narrativa in un laboratorio epistemologico. Ha mostrato che l'orrore non è l'irruzione del mostro, ma la rivelazione della nostra posizione nel cosmo. È un autore che non ha bisogno di essere letto per essere riconosciuto. La sua estetica, la sua idea di conoscenza, la sua geografia mentale si sono integrate nella cultura a un livello talmente profondo da essere diventate quasi invisibili.



Per questo motivo è corretto definirlo non solo come un maestro dell'horror, ma come uno degli architetti del pensiero immaginativo del Novecento e del Ventunesimo secolo. Chiunque racconti l'ignoto oggi, in qualunque forma, deve fare i conti con lui. Anche quando non lo sa.



Il sogno che non si spegne



Il viaggio attraverso l'eredità di Lovecraft non è un catalogo di influenze. È la storia di una trasformazione. Un autore che ha scritto da una stanza povera di Providence ha finito per modificare il modo in cui pensiamo al reale, al possibile, al conoscibile. Il suo sogno non è un sogno chiuso, non appartiene più alla sua pagina. È un organismo culturale che muta, cresce, si riproduce.



Nella Parte I abbiamo visto come la sua vita e il suo pensiero abbiano costruito un'estetica fondata sulla soglia, sull'indicibile, sulla distanza tra ciò che vediamo e ciò che sappiamo. In questa Parte II abbiamo osservato come quell'estetica sia stata accolta, trasformata e moltiplicata in ogni linguaggio della modernità. Dal lessico alla musica, dal cinema al fumetto, dal videogioco alla televisione, l'eredità lovecraftiana continua a espandersi, come un'onda lunga che non arresta mai la sua corsa.



Cthulhu non dorme più nelle profondità della cultura. È sveglio in ogni immagine che suggerisce invece di mostrare. In ogni storia che interroga la nostra insignificanza. In ogni opera che scruta l'abisso non per invocarlo, ma per comprenderlo. Il sogno continua. E il mondo continua a risvegliarsi al suo richiamo.

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