Into the Restless Ruins – Recensione
Into the Restless Ruins è un roguelike deckbuilder sviluppato da Ant Workshop, un piccolo studio scozzese con sede a Edimburgo, composto da sei membri, di cui solo tre hanno lavorato direttamente su questo progetto. Il gioco è stato pubblicato da Wales Interactive e lanciato il 15 maggio 2025 su PlayStation 5.
La particolarità di questo titolo risiede nella sua meccanica innovativa: ogni carta rappresenta una stanza o un corridoio del dungeon. Il gameplay si divide in due fasi: una di costruzione, in cui si utilizzano le carte per espandere il labirinto, e una di esplorazione, dove si affrontano le creature che lo abitano in combattimenti automatici ispirati a Vampire Survivors.
Il mazzo come mattoni: un gameplay strategico e originale
L'impianto ludico di Into the Restless Ruins è molto più profondo di quanto potrebbe sembrare in apparenza. Durante ogni run, il giocatore ha a disposizione una mano di carte che rappresentano le stanze del dungeon. L'obiettivo non è solo collocarle in modo da creare un percorso coerente, ma anche sfruttarne le caratteristiche uniche: alcune forniscono risorse, altre potenziano il personaggio o influiscono sulla frequenza degli incontri con i nemici. La gestione dei “Build Points”, risorsa limitata utilizzata per piazzare le carte, costringe a scelte oculate. Spesso non si potrà fare tutto, e sarà necessario decidere se puntare sulla sicurezza, sul guadagno a lungo termine o sul rischio calcolato.
Una volta completata la fase di costruzione, l'eroe entra nel dungeon e inizia l'esplorazione o mietitura, durante la quale affronterà ondate di nemici in maniera automatica, mentre la torcia che lo illumina lentamente si consuma. Quando la luce si spegnerà, la notte prenderà il sopravvento su di noi. facendoci perdere punti ferita in maniera costante. La componente di sopravvivenza è rafforzata dal fatto che il tempo è una vera e propria risorsa, e non è raro dover abbandonare una parte del bottino per non rischiare la vita. In questo contesto, il posizionamento delle stanze assume un valore critico: piazzare una stanza curativa troppo in fondo potrebbe significare non raggiungerla mai, stessa cosa piazzare un falò per rimpinguare la torcia sarà fondamentale anche in caso di ritorno, dato che se dovessimo morire in dungeon la barra di maledizione aumenterà più velocemente.
La varietà di approcci è alimentata da un sistema di progressione a doppio livello: da un lato si sbloccano nuove carte e i cosiddetti Charms, ossia reliquie permanenti, dall'altro si guadagnano Glimour da spendere tra le run per migliorare l'equipaggiamento iniziale. Questo garantisce una curva di apprendimento continua e un forte incentivo al “retry loop”, senza mai sfociare in frustrazione.

Leggende in pixel: tra folklore e orrore
Uno degli aspetti più affascinanti di Into the Restless Ruins è l'atmosfera. Il gioco si ispira apertamente al folklore scozzese, rielaborandone creature e figure mitologiche in chiave dark fantasy. La Harvest Maiden, entità enigmatica che guida il protagonista, è solo la prima di una lunga serie di presenze inquietanti: incontreremo la Hen Wife, lo spirito del Wulver e altre entità oscure, tutte caratterizzate da dialoghi brevi ma carichi di significato simbolico.
Non c'è una vera e propria trama lineare, ma una narrazione ambientale fatta di suggestioni, frammenti, elementi visivi e audio che costruiscono un mondo coeso e misterioso. Il giocatore si muove in rovine sospese tra il tempo e il sogno, e ogni elemento concorre a creare una sensazione di antico, dimenticato, pericoloso. La costruzione narrativa non guida la mano, ma suggerisce, lasciando al giocatore il compito di riempire i vuoti e interpretare le presenze che incontra.

Pixel art che incanta, audio che inquieta
Il comparto tecnico, pur nella sua semplicità apparente, è sorprendentemente curato. La pixel art, volutamente granulosa e con palette cromatiche fortemente contrastate, richiama i giochi retrò, ma con un'estetica molto personale. I dungeon sono costruiti con un ottimo senso della spazialità, e anche la rappresentazione delle carte e delle interfacce risulta sempre chiara e funzionale.
Il comparto sonoro è forse l'elemento più riuscito dell'intera esperienza. La colonna sonora, dominata da synth eterei e inquietanti, riesce a evocare sensazioni di mistero e tensione continue. Gli effetti sonori – il rumore della torcia che si consuma, i versi gutturali delle creature, il riverbero delle stanze vuote – contribuiscono a rendere ogni esplorazione coinvolgente, quasi claustrofobica.
Dal punto di vista tecnico, su PlayStation 5 il gioco è ben ottimizzato: caricamenti rapidi, assenza di bug evidenti, frame rate stabile anche durante le fasi più concitate.

Un Platino per veri costruttori di rovine
Il cammino verso il trofeo di Platino non è breve, ma nemmeno impossibile. Richiede tempo, padronanza delle meccaniche e un pizzico di pazienza, soprattutto per alcuni obiettivi legati alla randomizzazione delle carte. Completare tutte e sei le rovine disponibili è solo l'inizio: ogni rovina introduce variabili ambientali e nemici diversi, costringendo il giocatore a cambiare approccio strategico. Le build che funzionano bene in una zona potrebbero essere del tutto inefficaci in un'altra.
Ma l'ostacolo più grande è rappresentato dalla modalità “Terrore massimo”, in cui bisogna affrontare una rovina con tutti i modificatori di difficoltà attivi: torcia che si consuma più in fretta, nemici potenziati, carte negative inserite nel mazzo. In questa modalità, solo una pianificazione perfetta e una grande familiarità con le sinergie tra carte permettono di sopravvivere. Il trofeo finale non è tanto un test di resistenza, quanto una vera e propria dichiarazione di padronanza delle meccaniche. È il tipo di Platino che si ottiene perché si ama profondamente il gioco e si vuole esplorarne ogni singolo aspetto.
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