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Shadow of the Beast: redenzione e vendetta in un classico immortale della 16Bit Era

Il successo riscosso da tutti i più celebri sistemi da gioco avvicendatisi sulla scena in oltre trent'anni di storia si basa sull'affermazione di una ristretta serie di produzioni dal livello superiore alla media che, esaltandone il potenziale tecnico, veicolarono l'interesse del pubblico verso di essi. Quando si parla di Amiga 500, a tutt'oggi il personal computer più amato e celebrato di sempre, ognuno sarebbe in grado di stilare una propria classifica dei titoli degni di ambire a questo ruolo, ma a prescindere dalle inclinazioni personali, nessuno potrebbe mai lasciare fuori dal lotto il mitico Shadow of the Beast.



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Da semplice contadino ad araldo del sulfureo Maletoth, Signore delle Bestie: la storia di Arbroon è un oscuro groviglio di sofferenza, privazione e schiavitù culminato nella mutazione che lo privò della sua umanità.



Action-platform dalla sofisticata intelaiatura grafica e il gameplay altrettanto curato, il classico firmato dal team Reflections si distinse come una delle opere più complete ed ispirate della sua epoca, contribuendo ad alimentare quel processo di emancipazione artistica del videogame che avrebbe di lì a poco alimentato il dibattito sul reale potenziale espressivo del medium.



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Tra le feature grafiche più apprezzate del primo capitolo di Shadow of the Beast figuravano i numerosi livelli parallasse propri degli gli scenari, i quali conferivano loro straordinaria profondità e dinamismo. In alcune fasi del gioco, il numero degli stessi raggiungeva la ragguardevole soglia dei 12 layer.



Composto da cinque, lunghi livelli multidirezionali le cui ambientazioni rimandavano agli immaginifici panorami immortalati dalle opere di un maestro dell'illustrazione quale Roger Dean, il viaggio intrapreso dal tormentato Aarbron al fine di riappropriarsi della propria umanità perduta viveva di oniriche suggestioni in cui i resti di un passato ancestrale andavano mescolandosi a reperti tecnologici di un futuro altrettanto remoto. Sfuggendo alle grinfie di colossali mostruosità; lottando contro creature di mitologico retaggio; correndo a perdifiato per terre zeppe di pericoli, avremmo potuto in tal senso scoprire un nuovo modo di affrontare l'esperienza videoludica, in cui le emozioni e il costante senso della scoperta prendevano il sopravvento sulle pur valide dinamiche di gioco.



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Arbroon disponeva di un'unica barra energetica per portare a termine l'avventura. Quest'ultima si sarebbe esaurita dopo aver assorbito l'impatto di 12 colpi, ma poteva essere rimpinguata tramite l'acquisizione di speciali artefatti.



Acclamato alla stregua di un capolavoro da pubblico e stampa divenne oggetto di un numero davvero straordinario di porting che, partendo dalla nativa versione Amiga, coinvolsero nell'arco di un biennio macchine come C64, Spectrum ZX, Amstrad CPC, Master System, Mega Drive Turbografx CD e Atari Lynx. Parallelamente, i producer della Psygnosys s'adoperarono anche nella serializzazione del brand che si concretizzò già nel 1990 quando il 16Bit targato Commodore accolse Shadow of the Beast II nel proprio catalogo.



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Il repertorio dinamico di Aarbron si basava essenzialmente sulla possibilità di correre, accovacciarsi e saltare. In termini offensivi, questi avrebbe potuto invece contare sull'uso dei pugli o di un particolare calcio volante.



Passato alla storia per la spettacolarità della propria sequenza introduttiva, quest'ultimo avrebbe sostanzialmente ripreso il format del suo predecessore cercando di amplificarne l'impatto scenico. Al netto delle migliorie apportate al reparto animazioni, l'iniziativa non si rivelò tuttavia in grado di reggere il confronto diretto con l'originale evidenziando, al contrario, un eccessivo annacquamento del coefficiente di sfida nonché un sensibile calo di spessore narrativo. Sebbene alcune realtà giornalistiche non mancarono di evidenziare detti limiti, Shadow of the Beast II non faticò in ogni caso molto a raggiungere lo status di hit, il che spianò di fatto la strada allo sviluppo del terzo e conclusivo episodio della saga…



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Le cover box dei primi due capitoli della trilogia di Shadow of the Beast vennero realizzate da Roger Dean, celebre illustratore britannico passato alla storia per aver curato le copertine degli album di numerose band musicali della scena Rock/Progressive tra cui Yes, Gentle Giant e Uriah Heep.



Rilasciato nel 1992 in esclusivo formato Amiga, Shadow of the Beast III ci avrebbe restituito un Aarbron ormai tornato definitivamente alla condizione umana per coinvolgerlo in una nuova avventura dal taglio meno dinamico del previsto. Pur conservando una solida ossatura da action-platform, il rispettivo gameplay sarebbe infatti contraddistinto per la maggiore presenza di rompicapi e fasi esplorative, andando a chiudere il cerchio intorno ad un'esperienza ludica globalmente superiore a quella promossa dal suo più diretto antenato.



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Studi grafici di prova per la realizzazione del character design di Aarbron.



In barba a questo dettaglio, il terzo esponente della serie non avrebbe registrato vendite adeguate agli obiettivi di mercato fissati da Psygnosis: complici le vicissitudini finanziarie che, nel 1993, portarono i vertici dell'azienda a vendere le proprie quote azionarie alla fu Sony Electronic Publishing, il marchio di Shadow of the Beast sarebbe dunque rimasto chiuso in chissà quale soffitta, salvo spuntare fuori solo nelle cicliche indiscrezioni di chi ne garantiva una non meglio precisata rinascita.



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Immagine in-game promozionale legata al deludente Reboot prodotto dagli Heavy Spectrum Entertainment Labs nel 2016 in esclusiva PS4.



Alla fine, quest'eventualità si è verificata sui circuiti della PS4 col lancio dell'omonimo reboot degli Heavy Spectrum Entertainment Labs. Come molti sapranno, l'esito di questo revival poligonale non è stato davvero dei migliori. Va pertanto da sé che, nel cuore degli appassionati, vi sia ancora oggi spazio solo ed esclusivamente per un solo Shadow of the Beast. Il primo. L'inimitabile.



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4 ottobre 2017 alle 10:20